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 2025  marzo 30 Domenica calendario

Con le parole si batte la mafia

Cosa Nostra fonda il suo Impero sulla dottrina del silenzio: non parlare, tenersi tutto dentro, essere un «omo di panza», idea somma della virilità, per mantenere intatta l’invisibilità delle intenzioni. Certo, Cosa Nostra ha trovato nello Stato un terreno fertilissimo su cui edificare il proprio Regno, l’Italia è il Paese delle mezze verità, le omissioni sono continue e le menzogne dominano la scena. In questo vuoto di parole diritte e trasparenti, Cosa Nostra prospera seminando violenza, ferocia, crudeltà.

Palermo è una città innervata di silenzio. Ci sprofonda dentro quando è notte, ci annega nelle ore più calde. Nelle ore di punta, invece, il silenzio sembra non essere mai esistito, sbranato dal bordello del traffico e dai suoni che il suo ventre genera dal basso, un accumulo di rumori funzionale al mascheramento necessario per nascondere il malessere. I suoni di Palermo, vividi come i colori estivi, sono i due ladroni accanto al Cristo, stanno lì a occultare la crocifissione, non a celebrarla. L’afasia nutre la mafia, Palermo è messa in croce, i silenzi sono i chiodi che trapassano mani e piedi.
Metà anni Ottanta, sono a scuola, ho dieci anni, con i miei compagni stiamo parlando, sottovoce, di un tredicenne trovato legato a un pino alle porte di Palermo con entrambi gli occhi cavati, aveva visto e riconosciuto un killer di mafia in azione. Con gli adulti non ne parliamo perché tra di loro non ne discutono, non domandiamo nulla agli insegnanti, in fondo non ne discutiamo davvero manco tra di noi. Qualcuno indugia sui dettagli più cruenti, il sangue colato dalle orbite lungo le guance, il corpo legato al tronco con il fil di ferro, incassiamo la morte di questo ragazzo come un dato di fatto, l’ineluttabile presente nell’orizzonte degli eventi.
Per noi questo omicidio efferato non rappresenta nulla di eccezionale, a essere straordinaria, di questa storia, è la sua ubiquità. Qualche giorno dopo ne sento parlare a una festa di compleanno all’Acquasanta, con una variante: al picciotto non sono stati cavati gli occhi ma gli sono state mozzate le mani, s’era rubato una partita di eroina. Ne sento parlare l’indomani alla Bandita, a essere amputate sono state le orecchie, s’era scoperto che il ragazzino era confidente degli sbirri. Passano due giorni, o forse due mesi, e a Mondello ascolto un’altra versione, il tredicenne viene ammazzato perché ha guardato la moglie di un boss, cose che non si fanno, per questo gli tagliano i coglioni e glieli ficcano in gola.
La quantità di morte esperita a Palermo negli anni Ottanta è tale che non si dubita mai dell’omicidio e della messa in scena della colpa. Il segno della violenza è accettato, introiettato, vissuto come inevitabile.
Questo ragazzo trucidato è una sola persona o si tratta di quattro ragazzi diversi? Tutto è possibile in una città irreale come Palermo. Quando non si nominano le cose, non si ha certezza di nulla, la città stessa appare come un mosaico frantumato, le varianti di un fatto diventano le uniche verità cui aggrapparsi.
Sempre negli anni Ottanta, due persone si incontrano per strada, l’aria è straziata dalle sirene – ambulanze, volanti, gazzelle, non importa, è l’urlo delle sirene a disegnare il paesaggio sonoro della città.
«Che fu?», domanda il primo.
«Una ammazzatina», risponde il secondo.
A Palermo viene coniato un termine nuovo, l’ammazzatina, l’omicidio diminuito, anche in virtù della frequenza con cui si verifica, neologismo che racconta quanto si percepisca come normale l’imbattersi in un cadavere andando dal tabaccaio. L’invenzione di questo termine svela una condizione di orfanitudine esiziale: non avendo avuto in dote un vocabolario che sia in grado di contenere l’espressione di ciò che scuote l’intimità – la morte violenta, il sentimento che strazia, il trauma che spezza – si è dovuto giocoforza ricorrere a neologismi per creare la distanza di sicurezza tra sé e l’accadimento che ferisce, in un processo di rimozione spietato, già in atto nel momento stesso in cui il reale viene distorto nella sua nominazione.

È un mezzo di difesa, umanissimo, comprensibile, che però non racconta nulla per davvero, piuttosto mistifica, mente, manipola, senza arginare il male.
Eppure si devono trovare le parole per sconfiggere Cosa Nostra o per raccontare l’orrore. Se ci si trova davanti a un cadavere bisogna imparare a dire: «È un omicidio», non dire «È una ammazzatina». Se si bombardano i civili e si ammazzano centinaia di bambini, bisogna ammettere che c’è in atto un genocidio, con tanto di pratica della crudeltà a infierire sul corpo delle persone negando cibo, acqua, cure mediche, ponendosi come obbiettivo l’eliminazione totale del gruppo. Bisogna dire: «È uno sterminio», non «È un bombardamento».
È necessario cartografare con esattezza l’abisso mentre ci si precipita dentro.
Si può morire di silenzio?
Sì.
Il nostro professore di religione al liceo ci diceva: «Bisogna nominare le cose, bisogna scardinare la dottrina del silenzio».
Ci ho messo anni per capire appieno quanto questa sua lezione continui a rappresentare più di ogni altra la pratica virtuosa per erodere Cosa Nostra dalle fondamenta.
La disarticolazione del linguaggio e del pensiero mafioso può avvenire soltanto attraverso l’esatta nominazione delle cose, dei fatti, dei desideri. Il nostro professore di religione si chiamava padre Pino Puglisi. La sua rivoluzione linguistica ha rappresentato, e continua a rappresentare, un tale pericolo per Cosa Nostra che la mafia decide di ucciderlo nel settembre 1993. Qui si combatte davvero la battaglia per sconfiggere le mafie, la lotta deve transitare da una rivoluzione linguistica, usare parole che denudino, spieghino, suturino, curino, in questo presente che stermina i termini come stermina gli innocenti.
Alla fine, chi è il più disprezzato dai mafiosi? Chi parla.
Che fare, allora? Raccontare, dipingere autoritratti, ascoltare gli altri e il loro bisogno, ridare alle parole la dignità che hanno perduto.
Borges racconta di un uomo che si propone di disegnare il mondo, così trascorre gli anni popolando uno spazio con immagini di province, regni, montagne, baie, navi, isole, pesci, dimore, astri, cavalli, persone. Poco prima di morire si accorge che quel labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto. Raccontare un luogo e le sue macerie è come comporre un autoritratto. È la decifrazione dei segni: se nella tua città ti trovi di fronte a una pozza di sangue, l’immagine riflessa è il tuo autoritratto