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 2025  marzo 30 Domenica calendario

L’opulenza prima della catastrofe

Nella casa a tre piani sulla via principale di Kassa, la cittadina ungherese in cui nel 1900 nacque Sándor Márai, uno dei maggiori scrittori europei del secolo scorso (di cui oggi Adelphi, a novant’anni dalla prima edizione originale, e a venti dalla prima italiana, ripubblica l’affascinante autobiografia intitolata Confessioni di un borghese, a lungo bandita in Ungheria dal comunismo), oltre agli uffici di una banca e al comodo appartamento dei Márai, abitavano due famiglie di ebrei completamente diverse fra loro: gli ortodossi devoti – per semplificare – e gli ebrei ricchi, assai meno devoti, aperti alla modernità.
I ricchi «moderni» nemmeno parlavano con i «devoti», che nel vasto cortile ogni tanto, usando stracci e tappeti, innalzavano un baldacchino sotto il quale si cantavano i Salmi e si leggeva la Torah. Ma, in quell’epoca, il nazismo era sconosciuto; nessuno pensava che l’Europa sarebbe stata travolta dalla carneficina della Prima guerra mondiale; gli ideali erano incarnati nella quieta, quanto ottusa, felicità borghese, e in seguito dall’Olocausto.
Dai Márai, come nelle altre case di quel tempo, la servitù (compensata da salari miserabili) dormiva in cucina e poi, all’alba, procedeva alle sue abluzioni con l’acqua gelata del lavandino. I signori avevano un bagno, ma la vasca veniva riempita solo in due occasioni: se uno era ammalato, oppure il giorno del matrimonio. Uscendo da quell’ambito locale tutto azzimato e profumato, lo stomaco prominente stretto nella redingote, l’avvocato Márai si sedeva a capotavola (come tutti gli altri avvocati, funzionari comunali, affaristi di Kassa), per una colazione pantagruelica e si recava al lavoro. In casa rimanevano le donne. Nella biblioteca dello studio paterno erano allineati i romanzi popolari e i poemi di Klopstock, I masnadieri e le altre opere di Schiller preferite a quelle di Goethe, considerato un «classicista retrogrado e dunque “noioso”», i volumi di giurisprudenza e qualche strano libro in cui si parlava di socialismo.
Dalle ampie finestre del salotto si vedeva la sala dell’albergo di fronte in cui, in occasione delle grandi manovre tenute nei dintorni, era stato servito il pranzo a Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria e re d’Ungheria (con un conto che aveva fatto infuriare il capo del cerimoniale, esorbitante e indegno, soprattutto per quanto riguardava il pesce). In una sala più piccola, graziose fanciulle erano impegnate nelle lezioni di danza sotto la guida di un maestro vecchiotto e claudicante e del suo aiutante, il giovane e affascinante signor Tòth, che dei balli moderni come il boston, la polka, ma anche del Land tirolese conosceva ogni passo.
Diverse – ma non meno accoglienti per i carrettieri che portavano le loro merci dalla campagna, i vetturali con gli zigomi da tartari, i contadini – le taverne frequentate dalla povera gente, come Alla Chimera Dorata, dove si mesceva un ottimo vino asprigno e si mangiava la ricotta di pecora dolce e piccante, le viscere degli ovini ripiene di formaggio. In questa piazza montavano le loro tende e i loro palchi i circhi e i saltimbanchi; passava la banda impennacchiata; transitavano i militari dietro la fanfara e il feretro di un soldato morto per accompagnarlo al cimitero; col buio, si distinguevano a mala pena le immagini del primo cinematografo rudimentale; sferragliava un pencolante trenino che conduceva al bordello, di fronte al quale la file degli impiegati con la cartella si formava fin dal mattino.
Nella Mitteleuropa opulente e felice di inizio secolo la questione dei «poveri» non costituiva un problema e tanto meno motivo di odio, come sarebbe accaduto vent’anni più tardi. Ai poveri – scrive Márai – era doveroso rivolgersi in questo modo, quando stendevano la mano per ricevere l’elemosina: «Su, coraggio, prenda buonuomo», un po’ come si fa con gli ammalati e gli idioti. E certo, nel modo in cui i ricchi parlavano dei poveri, abbassando gli occhi, «si avvertiva un lieve senso di colpa». Ma questo era bilanciato, e in definitiva assolto, dalla considerazione «che così va il mondo, da sempre», per cui era inutile starsi a preoccupare più del normale: i vecchi poveri finivano la loro esistenza nei tetri ospizi imperiali; i fanciulli, incontrando un povero, dovevano pudicamente volgere lo sguardo altrove; i ragazzi più grandi erano assicurati alla vita eterna dalle gelide messe mattutine cui assistevano ogni giorno assonnati e rigidi nei collegi dei gesuiti come il Theresianum di Vienna, o in quelli di Pest.
Chi avrebbe potuto immaginare la catastrofe così vicina? Gli scrittori che narravano le vicende, soprattutto sentimentali, dei nobili, dell’alta e della media borghesia, intuivano che sotto la morbida quiete imperiale covava il seme che l’avrebbe sgretolata molto presto, mentre nel cuore degli uomini albergava una diffusa sensazione di spaesamento e di vuoto. E molti, come Sándor Márai, scappavano nella Germania con il marco a mille, torva e ordinata di giorno, scollacciata di notte, o in Italia, o nella Parigi gaudente dove si sentivano stranieri; scappavano e magari ritornavano perché al di fuori dei confini della patria non erano riusciti – come racconta la seconda parte di Confessioni di un borghese – a cancellare quell’ansia. Ma per tutti gli altri (nobili e borghesi) proseguiva la grande vacanza.
I Márai, un’estate, avevano affittato una bella villa in collina non lontana dalla città, accanto ad altre ville comodamente raggiungibili, la sera, dagli uomini dopo il lavoro. Era un posto meraviglioso: vicino a un folto bosco di abeti ricco di fragole e mirtilli. Il pomeriggio, sulle sedie a sdraio sistemate nel prato, le donne sferruzzavano o leggevano Il conte di Montecristo appena tradotto in ungherese; dopo la merenda, i signori si riunivano per una bicchierata; al crepuscolo arrivavano i mariti. Un giorno accadde un fatto impensabile. Ma neppure, un fatto. Si sta per celebrare una festa di fidanzamento: uomini e donne hanno indossato gli abiti più eleganti; nell’aria, attorno alla tavola imbandita, corre il profumo dei fiori; nei vassoi fanno bella figura i salmoni e le trote; nelle brocche luccicano le bibite al lampone, e i vini. A un tratto, sul bordo del prato, appare un ussaro. Deve consegnare una busta al sottoprefetto. Il sottoprefetto va, la apre, la legge. Quando torna è pallido come un morto. «Che cosa c’è, Endre?», gli domanda il signor Márai. L’altro risponde: «Hanno ucciso l’erede al trono». E dal cielo «azzurro liquido e trasparente, senza l’ombra di una nuvola», è come se si distaccasse una goccia di piombo.