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 2025  marzo 30 Domenica calendario

Puškin, ritratto dell’anima

A distanza di due secoli, cosa è possibile ancora pensare del romanticismo, e in che misura possiamo ritenercene gli eredi? Mi è capitato recentemente di ascoltare una conferenza sull’Evgenij Onegin di Aleksandr Puškin di Mario Martone, reduce dalla regia per la Scala dell’opera che nel 1879 Cajkovskij ricavò dall’immortale romanzo in versi di quello che ancora oggi è venerato come il più grande dei poeti russi. Puškin aveva pubblicato il suo capolavoro tra il 1823 e il 1830 in capitoli separati, via via che li terminava, e per affiancare alla sua un’impresa linguistica e poetica degna del paragone bisogna ricorrere all’esempio, altrettanto proverbiale, del nostro Manzoni, che proprio nel 1823 terminava il suo Fermo e Lucia. Volendo completare un’irripetibile costellazione di geni romantici, possiamo ricordare ancora Stendhal, che in poco più di sei settimane, tra novembre e dicembre del 1838, portava a termine La certosa di Parma, pubblicata l’anno dopo, quasi simultaneamente all’edizione definitiva dei Promessi sposi. Puškin nel frattempo era già morto in duello, all’inizio del 1837, a soli trentasette anni, seguito pochi mesi dopo dal quasi coetaneo Giacomo Leopardi.
Questi venerabili capostipiti, assieme a una manciata di spiriti affini, si sono lasciati dietro non solamente una serie di capolavori, ma quella che definiamo la letteratura moderna, che prosegue tutta intera nel loro solco. Alla potenza e all’originalità della percezione soggettiva del mondo e di sé stessi, hanno accompagnato una tensione formale, una febbre dell’esperimento capace di raggiungere la dimensione dell’inaudito.
Per tornare a Martone, la sua avvincente rievocazione degli snodi narrativi più importanti dell’Onegin si è soffermata sul finale, talmente privo di fronzoli retorici da apparire brusco, e proprio per questo modernissimo, simile al risveglio da un sogno. Per terminare un romanzo così bisogna essere un vero maestro, e possedere in sommo grado la virtù difficilissima della sprezzatura, ovvero la capacità di far sembrare facile ciò che facile non è affatto. Con uno strabiliante gioco di riflessi, il grande poeta ci insegna che l’arte di vivere e l’arte di scrivere devono essere governate da un’identica saggezza. La metafora fondamentale è quella di una festa: dalla quale è sempre meglio andarsene prima della fine, quando ancora si intrecciano le danze e si levano in alto i calici; così come è sempre meglio congedarsi dall’opera che si è scritta quando ancora resterebbe qualcosa da dire...
In tanti hanno visto in questi splendidi versi un presagio della fine precoce del grande poeta, che in realtà di presagi, nella sua opera, sembra averne disseminati in gran numero. Ma nel non bere fino in fondo alla coppa della vita, o a quella dell’arte, possiamo riconoscere anche un segno di libertà, di mobilità, di ironica padronanza dei propri mezzi.
La poesia di Puškin non deriva solo il suo fascino dagli altissimi risultati raggiunti, che si possono passare in rassegna come i capolavori di un museo, ma ancora di più dal fatto che l’opera è un’immagine veritiera di un’anima prensile e vagabonda, sempre mobile, disposta a viaggiare lontano nello spazio e nel tempo. Ed è un vero e proprio ritratto dell’anima più che un vero e proprio saggio critico, o la cartografia del mondo interiore di un genio, il breve e denso saggio appena uscito di Nicola Aldo Coviello, Puškin e la «poetica» del talismano, che incuriosirà i suoi lettori fin dall’esergo, che è un frammento di Nietzsche risalente al 1888: «Cambierei la felicità di tutto l’Occidente contro la maniera russa di essere tristi». Fa eco al filosofo Virginia Woolf in un celebre saggio del 1925, Il punto di vista russo, anche questo citato da Coviello. La scrittrice si chiede in che misura la curiosità sempre più diffusa tra gli inglesi per la letteratura russa potesse fare da premessa a una reale comprensione. E l’ostacolo non sono le traduzioni, di bravi traduttori ce ne sono ovunque. Il problema semmai sta nel fatto che la letteratura russa, al posto dell’infinita varietà dei personaggi dei romanzieri occidentali, ne possiede a ben vedere uno solo: l’anima, appunto. E l’anima «manca di forma», avverte l’autrice di Mrs Dalloway e delle Onde: ha poco a che vedere con l’intelletto, si tratti delle regole della logica o di quelle, ugualmente esigenti, della poesia. L’anima «è confusa, diffusa, tumultuosa». E l’opera inquieta di Puškin, sempre un passo oltre la convenzione letteraria accettata dalla società, sempre protesa verso un altrove, che sia il sogno di un improbabile Oriente o la sapienza nascosta in una vecchia favola, corrisponde perfettamente alla radiografia della scrittrice inglese.
Per Puškin, scrittore così colto e così nutrito di tutte le tradizioni, la poesia fu molto più un movimento che un patrimonio, e la stessa immagine centrale del «talismano» (condivisa tra l’altro con Montale) parla di una ricchezza avventurosa, portatile, sottoposta al gioco delle contingenze e dell’imprevisto. Soprattutto, come sottolinea Coviello, per Puškin la poesia «è ciò che deve ancora essere», così come, a metà del secolo dopo, per Antonin Artaud la danza e il teatro non erano due arti ormai millenarie, ma qualcosa che deve sempre e ancora cominciare ad esistere. La poesia inseguita con tanta inquietudine da Puškin da una parte è l’eco di un suono ancestrale, che proviene dalle origini dell’umano e del singolo individuo, dall’altra è una promessa, una scintilla di futuro, l’albeggiare interminabile di «una nuova lingua nella lingua». È a partire da questa tensione inesauribile che già i suoi contemporanei riconobbero in Puškin non solo il più grande poeta russo, ma il poeta per eccellenza, quasi una figura allegorica. Come disse il suo più grande tra gli eredi diretti, Nikolaj Gogol’, Puškin fu un dono fatto al mondo: «Per dimostrare con la sua persona che cos’è un poeta in sé, e niente più».