La Lettura, 30 marzo 2025
L’Ungheria si è persa. Ma c’è ancora speranza
Nessuno va più al cinema, si dice nel romanzo Di luce e polvere. «Se ti vedono al cinema, tutti pensano che non hai abbastanza soldi per comprarti il televisore. O il videoregistratore. Semplice. Perciò nessuno va più al cinema». Ma perché questa verità – questo senso comune – è così evidente per le signore che parlottano di sera su un ballatoio di Budapest, tra barattoli di cetrioli, e non per la protagonista che invece si imbarcherà nell’avventura di comprare una sala da 385 posti, un mozi (cinematografo) in un villaggio ungherese sperduto? Beninteso, per fallire e chiudere un’estate dopo? «È una questione di speranza», risponde Esther Kinsky, che il cinema al volgere del Millennio l’ha comprato davvero, e la speranza la coltiva tuttora.
Di luce e polvere (Iperborea) è in parte romanzo, in parte memoir. Ester Kinsky, tedesca, è una delle più grandi traduttrici viventi, e non soltanto in tedesco: le sue lingue sono l’inglese, il russo, il polacco. Negli ultimi anni, i suoi libri – tutti tra fiction, memoria e critica culturale – sono diventati un piccolo caso. L’hanno paragonata a W.G. Sebald, che lei non ama particolarmente, mentre nel suo pantheon ci sono Franz Kafka e il poeta Andrea Zanzotto, e leggendo la sua prosa nitida, pulita e quasi lucente si capisce perché. Sta inanellando premi su premi. Di luce e polvere si svolge nello spazio di un’estate, ma seguendo la vita del proiezionista Laci, o Laszlo, ricostruisce 100 anni di storia ungherese. E affronta la domanda: cosa sono diventate le periferie europee?
Lei sembra adottare la prospettiva di una cinepresa. Come se tutto fosse visto attraverso un occhio, un obiettivo.
«In realtà è il mio modo di percepire il mondo. Sono anche fotografa: nella versione tedesca del libro c’erano 48 fotografie. Per me guardare è il senso primario, funziono per immagini».
Cos’è per lei il cinema? Scrive che è un luogo magico, un’arte sopravvissuta appena un secolo.
«Sono cresciuta senza il televisore e anche adesso non ce l’ho. Ma sono sempre andata al cinema. È diventato il mio luogo d’esperienza. La compagnia anonima degli sconosciuti, l’odore della sala, la luce prima che inizi la proiezione: andare al cinema implica attraversare una soglia, prendere una decisione, e tutto questo lo rende un’esperienza completa. Anche adesso quando sono a casa, a Vienna, ci vado ogni giorno».
Ma nel libro è molto forte il senso di disgregazione, di un mondo che sta finendo. E così?
«Assolutamente. È un tema di molti miei libri. Mi interessano i momenti di passaggio, quando si è ancora legati a ciò che era, ma si avverte la perdita, il riassestamento. In Ungheria l’ho sentito fortissimo. Dopo essermi trasferita in un villaggio, mi ha colpito quanto la sua storia fosse multiculturale, multietnica: andando al cimitero, o scorrendo le rubriche telefoniche, c’erano nomi da 30 gruppi diversi. E ho percepito come tutto ciò stesse scomparendo, riducendosi a un’identità ungherese esclusiva, nazionalista. È stato uno choc».
Dal regime di Horthy al comunismo, fino alla transizione post 1989: in sottofondo, scorre la Storia ungherese.
«L’Ungheria era, con la Jugoslavia, il Paese più interessante dell’Europa dell’Est. Nonostante la repressione, c’era una gran varietà di letteratura, di cinema, un’alta istruzione, una libreria in ogni luogo. Questo piccolo centro in cui mi ero trasferita era stato, fino al 1989, piuttosto prospero. Poi, da straniera, ho assistito a una perdita spaventosa di fiducia della popolazione in sé stessa: c’era lavoro, e nel giro di cinque, dieci anni tutto è svanito. La povertà era indescrivibile, il paese che aveva 12 mila abitanti era sceso a 4 mila. Tutto questo genera risentimento, e la gente vuole un colpevole. Invece, nulla di nuovo è più successo, tutto si è affievolito, spento, dissolto. È qualcosa che non avevo mai visto prima».
Cosa pensa dell’Ungheria attuale?
«Temo ciò che Orbán sta preparando. Ha già introdotto leggi per poter dichiarare uno stato d’emergenza, che gli permetterebbe di sospendere le elezioni. È un’autocrazia. D’altra parte, però, per la prima volta c’è una figura politica emergente, Péter Magyar, che rappresenta un’alternativa: un conservatore, che viene da Fidesz, ma aperto all’Europa e ai diritti umani. E vedo segnali di risveglio delle opposizioni ovunque, in Slovacchia, Serbia, Turchia. Forse lo dobbiamo a Trump: stiamo vedendo come funziona lo svuotamento della democrazia, quanto velocemente può succedere».
Nel libro c’è un sottile senso di violenza. Come quando durante la guerra la gente lotta per la legna…
«Sì, è un elemento sotterraneo. È presente anche in molti film ungheresi. A volte sembra che regni solo l’apatia, ma sotto cova qualcosa di irrisolto, una violenza pronta ad emergere».
Il mondo rurale che lei descrive sta finendo ovunque?
«L’Ungheria aveva buone premesse per mantenere attiva la vita rurale: chi voleva abitare fuori città riceveva una casa con giardino, un appezzamento. Dopo il 1989 tutto si è rovesciato. In Italia, in alcune zone, è anche peggio: paesaggi splendidi ma deserti».
Perché le persone semplici sanno che il cinema non funzionerà e la protagonista, ossia lei, no? La cecità delle élite?
«No. Penso che credere in un’istituzione come il cinema richieda speranza. L’idea che recarsi in un luogo pubblico possa suggerire povertà è una sconfitta, la resa alla logica del profitto. Il cinema, come una biblioteca di paese, per me è un atto di solidarietà silenziosa, dove si condivide un’esperienza con estranei».
Quindi resistere è più importante che avere successo?
«Sì, resistere è fondamentale. Mi è capitato di parlare con studenti che avevano letto il libro. La domanda più frequente era: “Si è mai pentita?” E quando dicevo di no, si illuminavano».
Lei parla italiano. Ama Pasolini, ha scritto del terremoto in Friuli, dove ha anche una casa.
«Mio padre lo parlava bene. Andavamo spesso in Italia, al nord. Ricordo i viaggi lenti nella pianura padana, le case coloniche diroccate, la luce. Oggi è molto industrializzata, ma ha definito la mia percezione del paesaggio da bambina».
E tradurre per lei che cos’è?
«È l’esperienza di spingere più in là, di volta in volta, i confini del linguaggio. Gran parte dei traduttori rispetta le regole. Ma io preferisco piegarle, ed è come esplorare sé stessi in altre lingue».