La Lettura, 30 marzo 2025
Le nuove tecnologie sfidano la memoria
Come la mettiamo con l’«altra memoria», quella che sta fuori di noi, per intenderci, quella di internet o dell’Intelligenza artificiale? I nostri processi mentali si adatteranno pian piano alla tecnologia che cambia ed evolveranno in rapporto ai nuovi strumenti che avremo a disposizione? Se lo sono chiesto già qualche anno fa scienziati di New York e di Boston. Rispondere a queste domande non è affatto facile, ma dobbiamo partire dal presupposto che il nostro cervello è uguale a quello di 40 mila anni fa; con il passare del tempo abbiamo semplicemente imparato a servircene in modo diverso. Ed è così da sempre: confrontato con nuove sfide, il cervello trova nuovi modi per affrontarle. È così che siamo passati da un cervello usato soprattutto per ricordare a un «cervello capace di leggere». Nemmeno allora fu facile. Socrate per esempio pensava che scrivere e leggere fossero attività che denigravano l’intelletto. Lui, che non scrisse mai nulla, considerava vivo solo il linguaggio parlato. «Se non ci sarà più bisogno di imparare a memoria quello che vogliamo trasmettere agli altri la società finirà per impoverirsi». Ma Socrate non aveva fatto in tempo ad apprezzare quanto scrivere aiuti a scoprire nuove strade. Fosse vissuto altri cinquant’anni forse avrebbe cambiato idea. A mano a mano che si diffondeva l’alfabeto, in Grecia si diffondevano l’arte, la filosofia, la scienza...
Oggi il cervello si confronta con un’altra rivoluzione: i ragazzi si parlano su WhatsApp, e non c’è più nemmeno bisogno di scrivere, abbiamo macchine che scrivono, leggono e traducono per noi.
Adesso immaginiamo di trovarci in una città che non conosciamo e che Google Maps non funzioni. «Accidenti, s’è persa la connessione... chi chiamo adesso? Non conosco nessuno. Un vigile, forse, mi può aiutare; o la polizia. Potrei chiedere di chiamare a casa, o qualche amico, certo, basta fare così... e il numero?» (Arriverà il momento in cui perdere la connessione – o perdere il telefono – sarà peggio che perdere un amico).
E questo è niente, c’è di peggio. La dipendenza dalla tecnologia può renderti incapace di far fronte a imprevisti anche banali con cui ormai non siamo più abituati a confrontarci. I medici gli hanno anche dato un nome, «brain rot», come dire che a forza di dipendere dalla tecnologia il cervello progressivamente si deteriora. C’è anche un altro termine: «digital amnesia» (potresti perdere la memoria perché, a forza di internet e Intelligenza artificiale, non la usi più).
Diverse ricerche ci dicono che non è fantascienza ma potrebbe succedere davvero. Per esempio non ricordiamo quasi più i numeri di telefono. Un altro esempio? Chi è abituato a usare il navigatore fa più fatica a ricordare il nome delle strade; e c’è di più, uno studio del 2020 dimostra come la memoria spaziale, di chi usa sempre il Gps per muoversi, si deteriora molto più rapidamente di chi se ne serve poco o affatto.
Qualcuno arriva a dire che Google ci renderà stupidi, ma le cose probabilmente sono più complesse. Anche se, fra il grande pubblico, sono sempre di più quelli che si chiedono «perché devo mettermi in testa un sacco di cose quando ho uno smartphone in tasca e faccio prima a cercare su Google che nella mia memoria?». Una domanda così gli scienziati se la pongono da tanto tempo. Il problema è stato studiato a fondo: gli studi di Betsy Sparrow della Columbia University, nel 2011, dimostrarono che, di fronte a domande complesse, la prima cosa che uno pensa è di andare a cercare la risposta proprio su Google. E s’è visto anche che quello che sappiamo di trovare in internet («Qual è la capitale del Madagascar?») tendiamo a dimenticarlo, mentre ricordiamo con più facilità quello che non troveremo mai in rete.
Ma allora è vero che l’uso frequente di internet indebolisce la memoria? Forse, o forse no: altri ricercatori, fin dal 2018, hanno messo in dubbio l’intera costruzione teorica basata sui dati di Sparrow per il semplice fatto che non sono mai riusciti a riprodurli.
Chi ha ragione? A dirla tutta non lo sappiamo ancora; negli ultimi anni ci si è concentrati sul problema del sovraccarico cognitivo per capire se Google, ammesso che indebolisca la memoria, aiuti almeno un po’ a liberare il cervello da cose che non è poi così importante ricordare. Facciamo attenzione però a non confondere l’effetto della tecnologia con quello dell’età (questa sì, tende a indebolire la memoria), senza contare che la gigantesca quantità di informazioni dalle quali siamo bombardati ogni giorno potrebbe darci la falsa impressione di perderla un po’, la memoria.
E l’Intelligenza artificiale? Quale sarà l’effetto sulla nostra memoria? Quanto internet? O forse anche di più? Rispondere a queste domande è ancora più complesso. Strumenti come ChatGPT avranno certamente un impatto sulla nostra capacità di apprendere (e sulla nostra memoria), non necessariamente negativo, tutt’altro, e forse più sofisticato di quanto non sia successo in tutti questi anni con internet. Ma anche qui ci sono opinioni molto diverse: certi scienziati sostengono che gli strumenti basati sull’Intelligenza artificiale cambieranno sicuramente il nostro modo di ricordare, altri invece hanno ragioni per ritenere che l’Intelligenza artificiale generativa avrà qualche effetto sul nostro cervello ma non molto diverso da quello che abbiamo sperimentato con internet.
Il problema è reso ancora più complicato dal fatto che quando ci rivolgiamo a Large Language Models (LLMs) per avere in tempo reale risposte alle nostre domande, potremmo ricevere informazioni sbagliate, se quelle poi si fissano nella nostra testa finiremo per ricordare cose non vere, quando non alterate ad arte. C’è persino il rischio che qualcuno finisca per confondere la memoria dell’Intelligenza artificiale con la propria.
E pensare che Socrate considerava vivo solo il linguaggio parlato ed esortava i suoi allievi a tenersi lontani dallo scrivere. Oggi sappiamo che scrivere aiuta a pensare, e chissà che affidarsi all’Intelligenza artificiale non ci faccia perdere almeno un po’ queste capacità. C’è preoccupazione, per esempio, fra i professori delle università di tutto il mondo sul fatto che gli studenti usino l’IA per preparare i loro elaborati, con il rischio di non imparare niente, perché è l’esercizio di scrivere secondo Helen Pearson (giornalista scientifica, per oltre vent’anni a «Nature», autrice di un bellissimo testo pubblicato in questi giorni) che aiuta a pensare in modo critico e ad avere, di conseguenza, idee originali.
Non chiedetemi se sarà davvero così, non lo so, non lo sa nessuno. Il mio parere è che i passi avanti della scienza e della tecnologia di solito fanno più bene che male, e c’è da scommettere che sarà così anche questa volta. Un articolo, pubblicato da «Nature» qualche giorno fa, mostra come l’interazione fra le versioni più avanzate di ChatGPT, per esempio ChatGPT-4, consente di imparare in modo originale e innovativo, ma anche profondo. Secondo Amanda Heidt – scrive anche lei per «Nature» – conversare con chatbot è utilissimo per gli studenti universitari durante il periodo della specializzazione: aiuta a perfezionare il linguaggio, capirne le sfumature, apprezzarne la complessità (a parte il fatto che l’IA ti consente di identificare rapidamente le pubblicazioni di letterati, filosofi o scienziati, per esempio, che ti aiuteranno ad approfondire un determinato argomento senza perdere tempo a cercare quello di cui hai bisogno fra un’enorme massa di informazioni).
C’è chi è scettico comunque, e l’argomento è sempre lo stesso: «La macchina non sostituirà mai l’uomo», «la macchina dà informazioni non veritiere», «facciamo attenzione alle fake news», insomma «guai a voi (studenti) se userete l’Intelligenza artificiale per fare i compiti». Ma la maggior parte degli scienziati sostiene che grazie all’Intelligenza artificiale gli studenti risparmiano un sacco di tempo, imparano moltissimo e le informazioni che vengono da chatbot nella stragrande maggioranza dei casi sono corrette. «L’intelligenza artificiale – leggiamo su “Nature” del 6 marzo – va al di là del saper riassumere e correggere gli errori, adesso gli studenti imparano da “AI professors” anche più e meglio di quanto non succeda a lezione».
Siamo solo all’inizio, sono processi estremamente complessi e per quanto i ricercatori siano al lavoro per capire i rapporti tra questa tecnologia e il nostro cervello non aspettiamoci di avere risultati conclusivi nel giro di poco tempo, in particolare rispetto alla memoria. Certo, perché i ragazzi possano continuare ad avere un cervello capace di leggere nell’era digitale glielo si dovrà insegnare, come si è fatto con i bambini dislessici. Leonardo se l’è cavata da solo, con fatica. «Diranno – scriveva – che essendo senza lettere non potrò farmi capire». Si sbagliava.