Corriere della Sera, 29 marzo 2025
La figlia di Enzo Bearzot: «Era un medico mancato, per un 7 in matematica venne giù il soffitto. A Paolo Rossi disse che stava morendo»
Professoressa Bearzot, le piace il calcio?
«Sì, da sempre. Non ho particolari competenze, ma se c’è una bella partita la guardo. Sono interista per la Grande Inter degli anni 60: anche papà, pur avendo il cuore profondamente granata, aveva molta simpatia per l’Inter».
I suoi studenti universitari sono ancora sensibili al cognome del c.t. campione del mondo nel 1982?
«Solo i grandissimi appassionati colgono subito il rapporto. In passato chiaramente era più immediato, ma il bombardamento di informazioni rende difficile stratificare una memoria solida».
Lei ci resta male?
«In realtà meno mi riconoscono più sono contenta: da mio padre ho ereditato una timidezza estrema».
Qual è il primo flash della sua infanzia con lui?
«Alla sera, quando andavamo a dormire, faceva il buffone sulla porta. Era molto divertente: quando c’era, ci faceva ridere molto».
Gli pesava stare spesso lontano da casa?
«Aveva dei sensi di colpa, ma ho sempre cercato di dirgli che non doveva averne. Io non ho mai sentito la mancanza di un padre, anzi: a volte era anche troppo presente, perché era molto attento, sempre interessato a quello che facevo e a come lo facevo. Era un vero educatore».
Se i muri della vostra casa di Milano potessero raccontare la sua adolescenza cosa direbbero?
«A me piaceva molto studiare e a scuola ero brava, ma lui era molto intransigente: per un 7 in matematica venne giù il soffitto. Si rifaceva alla parabola dei talenti, che sono da far fruttare, per non offendere il creatore».
Era religioso?
«Era credente: faceva spesso riferimento al Vangelo».
Raccontava mai degli anni della guerra?
«Sì, ma è sempre rimasto in collegio dai salesiani a Gorizia e sapeva che era una situazione di grande privilegio».
Era di famiglia agiata?
«Mio nonno era direttore di banca, che agli inizi del 900 non era una cosa da poco».
Anche al futuro c.t. piaceva studiare?
«Il suo destino era studiare Medicina e la conosceva discretamente. Mi ha trasmesso anche questa passione: se rinasco, faccio il medico».
Il rapporto con il Friuli, glielo ha trasmesso?
«Sì, sono molto attaccata alla friulanità. Lui aveva caratteristiche spiccate della sua terra, come il fatto di pesare le parole. Sento che questo mi è stato passato».
Tra le sue passioni c’era anche quella per il vino?
«In realtà era astemio, perché un’ulcera lo tormentava. Non ho mai visto una bottiglia in casa, solo tanto fumo».
La pipa era un rito?
«È uno dei miei crucci. Lui fumava tantissimo, come del resto mia madre. Dopo qualche problema ai polmoni gli consigliarono la pipa. Ma in realtà non smise con le sigarette. Non c’era nulla da fare».
Ha ricordi di lui in campo?
«Non tanto, anche perché giocava a Torino ma aveva tenuto la famiglia a Milano».
Il grande Gian Paolo Ormezzano raccontava che il c.t. citava spesso un poeta turco: di chi si trattava?
«Nazim Hikmet: la poesia era una delle sue numerose passioni. Molti dei suoi libri, come quelli d’arte, li ho regalati all’Università, ma alcuni li ho tenuti. E fra questi ci sono quelli di poesia e di letteratura americana».
Parlavate molto di libri?
«Sì, gli devo molto dal punto di vista culturale: Steinbeck ad esempio l’ho conosciuto attraverso di lui. Bruno Pizzul diceva che papà era un esperto di arte fiamminga: con lui si poteva parlare di tutto».
Il libro della vita qual era?
«Mi citava sempre “Il piccolo campo” di Caldwell. Lo conservo religiosamente».
Cultura e calcio oggi sembrano abbastanza distanti.
«Una volta era anche peggio e la differenza culturale non credo che l’abbia aiutato nelle relazioni. Tra gli attacchi prima di Spagna 82 c’era anche l’accusa di essere ignorante e stupido, che davvero non si meritava. Era paradossale e io ho sofferto molto».
È vero che era sua madre Luisa a fare da filtro alle telefonate per il c.t.?
«Sì, mia mamma era terribile! E partecipava molto alla vita professionale di papà: secondo me anche troppo, perché le intenzioni di mio padre erano quelle di tenere separate la famiglia e la professione, per proteggerci».
Che coppia formavano?
«Si sono conosciuti sul tram e sono stati assieme cinquanta anni. Però erano molto diversi: ogni tanto facevano scintille».
Guardando la foto del suo matrimonio, all’altare accanto a suo padre non si capisce chi fosse più teso.
«Lui quel giorno era intrattabile e aveva una faccia patibolare: sembrava fosse al mio funerale e mi comunicava una certa angoscia. Mi sono sposata al pomeriggio e al mattino eravamo a casa solo io e lui: è rimasto sul divano per tutto il tempo. Eravamo molto legati e l’idea che andassi via non gli piaceva, anche se avevo già 26 anni».
Lei insegna storia greca: il calcio è (o è stato) una mitologia contemporanea?
«Un pochino direi di sì. Il trionfo del 1982 è stato qualcosa di epico e in questi termini viene ricordato. Penso che sia così per tutti quelli che l’hanno vissuto».
Suo padre era un moralista, nel senso nobile, e seppe leggere dentro Rossi reduce dalla squalifica.
«Questa è una cosa molto importante: non restare alla superficie dell’immagine mediologica. Rossi era in un momento molto difficile, umano e atletico, ma la volontà di papà nel recuperarlo è stata tenace. Con altri, che avevano trasgredito le regole del ritiro, non tornò mai sui suoi passi: aveva capito di non potersi fidare. E io gli dicevo che era un po’ troppo intransigente».
Al Mundial aveva 56 anni eppure era già «il Vecio».
«Merito di Giovanni Arpino, che lo definì così. Ma anche della sua espressione, quasi da eroe antico. E della sua concezione dello sport, che era antica anche quella».
È stata mai gelosa del rapporto di papà coi giocatori?
«Al contrario, quando tanti hanno detto che per loro era come un padre, mi ha fatto molto piacere: significa che nel lavoro era come a casa».
Dell’offerta dell’Arsenal nel 1978 ne parlava?
«Sì e anche di altre. Ma lui era del tutto indifferente al denaro, faceva solo quello che si sentiva di fare. E diceva anche di non reggere lo stress della partita settimanale».
La notte dell’11 luglio 1982 lei festeggiò in strada?
«No, ma sbattevo pentole e coperchi dalla finestra per fare un po’ di cagnara».
Vi siete parlati subito?
«Solo quando siamo andati a prenderlo all’aeroporto, con due stampe del mondo da regalargli: per l’impresa del Mondiale ci sembrava una bella idea».
Quando vide Zoff baciarlo sulla guancia cosa pensò?
«Si davano del lei in pubblico: la trovai una cosa profondamente commovente».
L’inchiesta del 1984 sulle presunte combine nella prima fase del Mundial lo ferì?
«Fu un momento difficile, ci ripeteva che gli dispiaceva che ci dovessimo vergognare di fronte all’opinione pubblica. Gli dissi che non ci pensavo nemmeno a vergognarmi».
Fu tentato dalla politica?
«Aveva avuto delle proposte, ma non aveva accettato. Per la sua assoluta incapacità di scendere a compromessi».
Gli anni della malattia come sono stati?
«Fino a un certo punto l’ha vissuta con una certa volontà di combattere. Negli ultimi mesi ci fu l’incontro con Paolo Rossi in montagna. E mentre parlavano, mio padre gli disse “Stavolta siamo al dunque”. Lui lo chiamava il redde rationem, con consapevolezza».
Lo stadio Enzo Bearzot è solo a Gorizia. Un po’ poco?
«In realtà altri piccoli paesi gli hanno intitolato un impianto sportivo e questo è molto bello, perché papà era convinto del valore formativo dello sport. A Milano o in altre grandi città invece non c’è stata mai alcuna iniziativa».