Il Messaggero, 29 marzo 2025
Intervista a Carlo Verdone
Il genio, i film, le battute, il talento, i premi, l’affetto del pubblico. Se togli la cornice, resta Carlo Gregorio. Il dipinto senza il quale Verdone non esisterebbe: «Ho un mondo tutto mio nel quale mi rifugio per schivare le amarezze. È il posto dei sogni, dei ricordi e delle visioni. Quando prendo il motorino e vado a fare colazione incontro spesso un omino piccolo e anziano. Si inerpica verso l’edicola, prende il suo giornale, è sempre solo e cammina proprio come mio padre. Lo vedo e sussurro: “Ciao papà”. Quel signore è un’immagine familiare, un tuffo nella tenerezza, una persona da proteggere con un pensiero affettuoso».
Mario Verdone, docente di Storia e Critica del cinema, morì a 92 anni.
«Senza mai aver conosciuto Oreste, suo padre, ucciso da un colpo di mortaio degli austriaci sul monte San Gabriele. Papà crebbe a Siena con sua madre, divenne assistente universitario di Norberto Bobbio e animato dalla curiosità riuscì a crearsi amicizie tra pittori, critici, attori e registi: Sadun, Brandi, Zeffirelli. Amava le avanguardie e il futurismo: alla manifestazione di Marinetti, papà era in prima fila con lui».
Alcuni registi venivano a trovarlo.
«Si era trasferito a Roma e dirigeva la rivista Bianco e Nero. Gli era capitato di scrivere saggi e intervistare Blasetti, Lattuada, Pasolini, Rossellini, Fellini e Germi. Avevano occhialoni scuri calati sul volto: autorevoli, inquietanti, simili a dei commissari di polizia. Varcavano la porta e all’improvviso calava il silenzio».
Lei era il primo di tre fratelli.
«Quando gli adulti uscivano ero investito dalla responsabilità. Avevo il compito di preparare il pranzo e mi sentivo svelto e protettivo. A volte, troppo compreso nel ruolo, persino autoritario».
Che bambino è stato?
«Ero molto emotivo e rimasi sconvolto dalla scoperta del lutto. Quando morì una zia che viveva con noi soffrii tantissimo e lo stesso accadde anche con mio nonno. La camera ardente aveva un che di iconografico: le candele ai lati della salma, due monache in preghiera, la gente a rendere omaggio in processione. Rimasi impressionato e cominciai ad essere un po’ instabile, a parlare poco, a nascondermi e ad avere qualche lieve tic. Mia madre mi portò da un neurologo e i tic così come erano arrivati, scomparvero».
Cosa ricorda di questi medici?
«Una volta mamma portò a casa il professor D’Agostino: un luminare che aveva un’aura così sacrale che non ci saremmo stupiti a vederlo camminare sulle acque. Avevo problemi con il sonno e mi domandò cosa facessi di notte. “Scrivo poesie” risposi. Declamai i titoli: “Sulle dune di Sabaudia, La sedia vuota, Come lacrime sui vetri”. Chiese di leggerle: “Mi vergogno, sono molto personali”. Insistette. Diede uno sguardo, aprì il ricettario e scrisse: “Serpax, 15 mg al giorno”. Poi si schiarì la voce e sentenziò: “a vita”. “Suo figlio” spiegò a mia madre “è un ansioso. La benzodiazepina lo aiuterà”. Chiesi: “Professore, ma a vita significa per sempre?”. Fu lapidario: “Ringrazia dio di essere ansioso, altrimenti saresti una testa di cazzo qualunque”. Rimasi a bocca aperta però ci pensai a lungo. Aveva ragione: come sostenevano i classici: “inutilmente bussa alla porta dell’arte chi è completamente in sé”. L’artista deve avere un po’ di follia».
Cosa ricorda della fascinazione del cinema?
«I film western visti con mio padre. Un uomo austero che di fronte allo schermo subiva una metamorfosi. Il duello lo eccitava: si alzava e mimava la sparatoria. Urlava: “bang, bang” e rideva forte, papà. Cento volte più forte di qualsiasi altro spettatore. Da una parte mi imbarazzava, dall’altra mi divertiva».
Nelle prima cantine in cui recitò, la platea era semivuota.
«Venivano gli amici dell’università: 20, forse 30 persone. C’era un’umidità incredibile e quando dicevamo le battute, per il freddo, il fumo ci usciva dalla bocca. Si ammalarono tre attori e fummo costretti a sospendere lo spettacolo. Luca, mio fratello, era disperato. Suggerii una soluzione: “So le parti a memoria, i personaggi li interpreto io”. E come fai?”. “Mi cambio in corsa e calibro le voci”. Si fidò e da un testo di Bergman precipitammo in uno show di Carlo Verdone. Il pubblico si divertì, la voce si sparse, il teatrino si riempì di stupore reciproco. La gente era sorpresa e sorpreso ero anche io. Non ho mai voluto fare l’attore in vita mia. Non era la mia idea, il mio desiderio, la mia ambizione, il mio sogno. Lo facevo per stare con gli altri. Però sentivo che sul palco la timidezza si affievoliva e acquisivo sicurezza e coraggio. È nato tutto da lì, da quelle notti».
Cosa riconosce del Verdone di ieri nel Verdone di oggi?
«Che brutte figure, ieri come oggi, non ero disposto a farle. Avevo una missione da realizzare e mi concentravo. Poi ero capace di improvvisare. Un dono che mi ha sempre accompagnato. Con me la risata scaturisce, più che dalla battuta, dall’intuizione del momento».
Enrico De Nicola diceva: “La gratitudine è il sentimento del giorno prima”. A chi è grato Verdone?
«Mio padre, del mio mestiere, aveva un giustificato timore. Ne conosceva fragilità e incertezza. Sapeva che poteva finire tutto da un giorno all’altro e mi ripeteva: “O guidi il gruppo di testa o chiudi la fila: un’umiliazione terribile”. Mia madre invece, la donna che di me capì tutto, mi disse: “Ho fiducia, sei nato per fare l’attore. Quando reciti hai una seconda anima e una sensibilità speciale”. A darmi quel famoso calcio nel culo, la sera della prima di Tali e quali, all’Alberichino, nel ‘77, fu lei. Non volevo andare in scena e in un momento di panico, le chiesi di telefonare per dire che non stavo bene. Mamma aprì la porta di casa, mi spinse fuori e gridò: “Vai a teatro, cretino. Tra un’ora ci vediamo lì”. Guidai come un matto. Ero nervoso perché in platea c’erano i critici: “Io non sono un attore” mi ripetevo “sono uno che ci sta provando”. Salii sul palco in stato confusionale, saltai una battuta importante e me la feci sotto. Poi in extremis, riuscii a recuperare e con un’espressione feci ridere tutti: un massaggio al cuore. Alla fine ero felice. E felice era mia madre, una donna forte, che ogni tanto si arrabbiava».
Per quale ragione?
«Mio padre non guidava. Aveva un autista del Centro Sperimentale di Cinematografia che lo veniva a prendere e lo riportava a casa. Quel momento fondativo: un padre che aspetta i suoi figli fuori da scuola, come capitava ai nostri amici, io e mio fratello non l’avevamo mai vissuto. Cominciammo a metterlo in croce: “Perché non compri una macchina anche tu?”. Non eravamo ricchi, ma fummo così ossessionanti che la Maginot cedette e dopo un anno papà ci annunciò il lieto evento: “C’è una sorpresa” disse a pranzo. Scendemmo le scale trafelati e finalmente ci sentimmo benestanti. Mia madre era preoccupata perché sapeva che mio padre, al volante, era negato. Era stato bocciato per sei volte all’esame e significava una sola cosa: che marce e pedali dovevano esserti interdetti. Ogni volta che uscivo con lui, pregava perché non finissimo contro un tram».
Avvenne?
«Un giorno papà mi chiese se volevo accompagnarlo all’Ansa. Lui e mamma discussero: “Come ti viene in mente di portare Carlo?”. Uscimmo inseguiti dalle raccomandazioni: “Mario piano, vai piano”. Impiegò 20 minuti a uscire dal parcheggio e poi, in strada, tra prima e seconda, non si azzardò a superare i 20 all’ora. Lo pungolai: “Forse devi inserire la terza”. Non l’avessi mai detto. Si sentì sicuro e vedendo la strada libera accelerò: “Lo vedi Carlo? Vedi come la macchina risponde e il motore libera tutto il suo fragore?”. Mezzo secondo ed eravamo contro un muro. Distruggemmo l’auto e l’ingresso di un negozio, io diedi una botta tremenda, lui si taglio il sopracciglio e in breve fummo circondati dai passanti. Venne chiamata mia madre. Scese da un taxi, furibonda: “Disgraziato, è l’ultima volta che guidi in vita tua”. Papà rimase in castigo per un anno. Poi tornò a prendere delle lezioni e in qualche modo, alla fine, tornò a guidare».
Cosa ricorda degli esordi al cinema?
«Venivo dall’esperienza di Non Stop con Enzo Trapani a Torino, affrontata tra mille interrogativi perché alla vigilia della partenza mi era arrivata la proposta della Rai: un’assunzione come programmista regista. Un’offerta che di fronte all’ignoto offriva uno stipendio e una certezza. Decisi di dire di no e feci bene perché Non stop si rivelò fondamentale per lanciarmi definitivamente. Un sacco bello lo girai nell’estate del ‘79. Sul risultato c’erano dubbi. Mia moglie Gianna non sapeva bene come prenderlo: “È atipico, strano, ti riconosco e non ti riconosco”. Mi angosciai, ma Sergio Leone, il produttore, mi tranquillizzò: “Nun te preoccupà” diceva muovendo le mani come a voler stritolare qualcosa “’sto film ce l’ho tra le mani”. Le critiche furono eccellenti, rimasi quasi frastornato». Con il film si ride e ci si commuove: come sostiene Beckett «non esiste niente di più comico dell’infelicità».
Far ridere non le bastava?
«Mi sembrava disonesto: la vita non è fatta soltanto di sorrisi. Il cinema è un compromesso tra regista e pubblico, ma se non sei onesto e sincero, alla lunga, si vede. Non ho mai pensato a pesi e contrappesi, alla convenienza, alla formula magica: avrei fatto il geometra. Ho sempre scritto cercando di tirar fuori qualcosa di veramente mio e nei miei film, infatti, ritrovo me stesso. Se non lo avessi fatto non mi sarei sentito libero, ma un esecutore. Una cosa rispettabile, ma diversa».
Cosa ha raccontato davvero in questo mezzo secolo?
«La solitudine. Qualcuno dei miei film è riuscito meglio e qualcun altro peggio, ma alla fine quel tema è al centro di tutti quanti, dal primo all’ultimo. La serie tv che ho appena finito di girare, Vita da Carlo, non è mica tanto distante dalla mia vita, sa?».
E cosa ci dice?
«Che appartengo a tutti e non appartengo mai a me stesso. Ho lavorato per questo, lo so, come so che la gente mi vuole bene e ne sono contento. Però è difficile camminare per tre minuti con la certezza di essere fermato per una foto e certe volte sentirmi proprietario di me stesso mi manca tantissimo».
Ha una casa in Sabina: lì riesce a stare in pace?
«Non si illuda. C’è gente che parte dalla Calabria e lascia dei copioni sulla porta. L’ultimo si intitolava Morte di Pasquale Ametrano, l’emigrante di Bianco rosso e Verdone. Leggo e mi domando: “Ma cosa ho lasciato? Cosa hanno capito veramente di me?”».
“Bianco, rosso e Verdone” è un capolavoro, ma rischiò di farle cambiare mestiere.
«Leone, Poccioni e Colaiacomo, i produttori, pensarono che avessi sparato tutte le cartucce, smisero di credere in me, non mi rinnovarono il contratto e nonostante i premi e gli incassi si dileguarono. Io rimasi fermo a casa a guardare il soffitto. Mia moglie mi chiedeva: “Oggi non lavori?”. “E per chi?” rispondevo. “Sono spariti tutti”. Per la disillusione mi venne anche in mente di tornare all’università. “Aveva ragione papà” pensavo “Il cinema è un lavoro pericolosissimo”».
Di lei si ricordò Cecchi Gori.
«Mi volle incontrare all’acme della mia disillusione. Fumava il sigaro: “Ho visto in ritardo Bianco, Rosso e Verdone. L’è veramente un gioiellino e quell’emigrante è poesia pura. Ti faccio un contratto”. Fece una pausa: “Però non voglio personaggi, ma una bella storia perché credo in te”. Io e Enrico Oldoini, in 11 mesi, buttando mille revisioni, scrivemmo Borotalco. Sapevo di non poter più sbagliare: un errore e sarebbe finita».
Non sbagliò.
«Per colori, musiche e atmosfere, Borotalco era una perfetta sintesi degli anni ’80. Un mondo candido, avido di leggerezza, allegria, ottimismo e favole per dimenticare il decennio precedente».
Lei gira “Borotalco” mentre sua madre lotta contro una grave malattia.
«Mi sentivo sdoppiato: sul set dovevo pensare al film e dimenticarla. Non era possibile e a fine riprese correvo in clinica per vedere se c’erano miglioramenti. Non c’erano e uscivo distrutto. È stato molto faticoso e doloroso. Ancora oggi mi chiedo come ho potuto fare un film comico in quel momento seguito da Acqua e Sapone che coincise con l’addio. Se ne andò nell’84, a 59 anni, mamma. Troppo giovane. Non se lo meritava. La sua assenza si sentì subito. La casa in cui ero cresciuto era diventata triste, non c’era più allegria femminile, non c’era più una donna».
Lei le ha raccontate e dirette con la grazia di un Pietrangeli.
«Sentivo di capirle e mi piacerebbe essere ricordato come il regista che amava le sue attrici. Le donne sono più complesse e sempre molto più interessanti degli uomini. Hanno un loro universo, molto delicato e complicato, ma al tempo stesso più profondo»
Cos’è rimasto fuori dalla porta nel tuo cinema?
«Un film intimo, drammatico e lontano dalla commedia. Fino ad ora non l’ho fatto e mi dispiace molto perché so che ora, nella maturità, saprei farlo».
Pensa di aver provocato più delusioni di quante ne ha sopportate?
«Non sono stato deluso dagli altri, ma capisco chi si è allontanato perché starmi vicino non è facile. Lavoro tanto e ho una vita caotica in cui trovare spazio è difficile. Ma è la mia e forse un’esistenza più vuota non avrei saputo né voluto sperimentarla».
Ha molti amici nel mondo del cinema?
«Non tanti. Quando ci incontriamo, tra colleghi, è tutto un “come stai carissimo?”. A me piacerebbe sentirmi dire: “il tuo film non mi è piaciuto” e ascoltarne le ragioni, proprio come mi piacerebbe dirlo a un altro regista senza che si offenda. Ma è un mondo suscettibile, in cui dirsi la verità è difficile se non impossibile. Allora devi sempre dire che è tutto magnifico. Un gioco che alla lunga mi annoia».
Quando qualcuno è ipocrita con lei lo capisce subito?
«Da ragazzo ero bravissimo nel capire le persone al volo. Distinguevo subito il cialtrone dall’uomo di valore. Oggi qualche cantonata la prendo e questo mi mette in crisi: “Ma porca miseria” mi dico “io sapevo leggere le cose e non mi sono accorto che dietro a ‘sta faccia c’era una grande fregatura?”».
C’è una spiegazione?
«Ero molto più pragmatico e razionale, forse sono diventato troppo buono e compassionevole. Tendo subito la mano e voglio pensare che chi ho di fronte sia sincero. Spesso non è così». «Verdone è gentile, Verdone non dice mai di no».
Ha imparato a dirlo?
«Qualcuno. E la vita, dopo, è leggermente migliorata. A volte mi piacerebbe essere quasi invisibile, ma mi rendo conto che devo il successo soprattutto all’amore del pubblico. Quell’amore è energia creativa. Essere generoso e restituire qualcosa non è solo giusto: è sacrosanto».
Come risolve la contraddizione?
«Non la risolvo. Sono Carlo Verdone, ho quasi 75 anni e mi tengo il mio carattere».
È orgoglio?
«È realismo. Quanto crede possa cambiare veramente?».