Tuttolibri, 29 marzo 2025
"Sinti e palestinesi, la rabbia degli oppressi non ci darà tregua"
Le abbiamo negli occhi, e nelle orecchie: da un anno e mezzo, da quel 7 ottobre 2023 che ha spaccato in due il tempo, le notizie su ciò che avviene nella striscia di Gaza ci arrivano ininterrotte. Eppure, non bastano. Eppure, continuiamo ad avere bisogno di storie, storie come quella de Il cielo sopra Gaza non ha colori di Morena Pedriali Errani (tra i titoli proposti al Premio Strega 2025) che ruota attorno alle due gemelle Nur e Layla, la prima cieca, la seconda che vuole proteggerla con la fantasia dalla realtà di bombe che le circonda, «due modi diversi, ma fortemente complementari di resistere». Le due adolescenti, rimaste orfane, trovano rifugio nell’ospedale di Al-Ahli Arab a Gaza City che, a sua volta, viene bombardato: è allora che le loro strade si dividono. La ferrarese Pedriali Errani viene da una famiglia sinta e circense. Dopo il fortunato esordio del 2023 con Prima che chiudiate gli occhi, ispirato all’esperienza della nonna partigiana durante la Resistenza, in questo romanzo ci porta tra le macerie, la morte e la sottrazione di tutto – «c’è una tenda poco lontana dove qualcuno fa bollire dei fili d’erba, rigirandoli con un bastone improvvisato a mestolo dentro una pentola mezzo bruciata» – che, mentre noi siamo qui a leggere e scrivere, è la realtà per oltre due milioni di persone sfollate e perseguitate.
Perché il cielo sopra Gaza non ha colori?
«In realtà li ha e ne ha infiniti perché Gaza, come tutta la Palestina, ha una cultura secolare e ricchissima, ma sono colori che vengono di fatto rubati e soffocati dall’occupazione, sovrastati dal caos delle continue esplosioni, del sangue che ne imbratta le rovine. Una cosa per cui ho profondo rispetto del popolo palestinese è che, nonostante questo atto di genocidio culturale, prima ancora che fisico, resiste anche attraverso la memoria delle cose belle, dell’umanità che si nasconde sotto quel cielo e che rifiuta di piegarsi dimenticando le proprie radici».
Qual è stata la prima immagine che le è arrivata di questa storia?
«Quella di una bambina in mezzo alla guerra, Hind Rajab, una palestinese di appena 5 anni uccisa con 355 proiettili dai soldati israeliani mentre aspetta soccorsi dentro una macchina in mezzo ai corpi senza vita dei familiari. Anche i soccorritori sono stati uccisi. Mi sono chiesta come si potesse far finta di non vedere davanti a scene del genere, che dovrebbero scuotere le vene. Da lì è nata questa idea di luce e di buio».
Che fili legano la storia della Palestina a quella della sua famiglia?
«Occupandomi della memoria di una minoranza che, a oggi, non ha avuto alcun riconoscimento né ammissione di responsabilità da parte dell’Europa circa il proprio genocidio, ho trovato paradossale che molti faticassero a riconoscere che quelle stesse dinamiche si stanno verificando oggi nei confronti di quello che sta accadendo in Palestina. Così come rom e sinti vennero, e sono ancora, visti come vittime di serie B che, in fondo, “se la sono cercata”, lo stesso meccanismo di invalidazione viene applicato ai palestinesi. Si cita questo fantomatico diritto di Israele di difendersi, ma come può essere considerato difesa il bombardare scuole, ospedali e targettizzare i civili, compresi i neonati nelle braccia delle madri? È una vista selettiva che si decide di utilizzare per non mettersi in discussione, perché è più comodo così. Per chi, però?».
Ha parlato della necessità di recuperare una «memoria pratica». Che cosa intende?
«Banalmente, proprio l’atto di praticare la memoria, cioè studiarla, tentare di comprenderla e far sì che tutto questo serva per non ripeterla. Il sentire, oltre i numeri, che la storia è fatta di persone reali, che oggi come allora ci sono voci che scegliamo di non ascoltare e che invece è fondamentale ascoltare per non cadere nel baratro della disumanizzazione. È come mantenere viva la società stessa, far sì che nessuno sia più lasciato indietro».
Che legame c’è tra martirio, memoria e rabbia?
«I martiri, nella cultura palestinese, hanno grandissima importanza e la cosa che mi ha colpito, parlando con alcuni attivisti, è come ci sia in loro quasi una “non morte”, nel senso che continuano a vivere nel ricordo della loro resistenza, nei gesti che si continuano strenuamente a raccontare, nell’amore indissolubile dei loro cari che, nonostante tutto, si battono per ricordare e far ricordare. Credo che la rabbia sia motrice di un cambiamento sociale, spesso la si condanna e se ne ha paura perché il cambiamento terrorizza, perché è più facile condannare la reazione rispetto alla causa che l’ha scatenata. La rabbia dei popoli oppressi viene silenziata e repressa, ma è proprio da questa che nascono le rivoluzioni, che si tenta di disegnare mondi diversi, più umani. La rabbia che non rimane sterile, ma che fa germogliare di nuovo la terra».
Layla scrive alla fine: «Un giorno il mondo dovrà rispondere di quello che è stato fatto qui». Lei ci crede davvero?
«Assolutamente sì e sono convinta che avverrà. Che la Palestina un giorno sarà libera perché ogni colonialismo è destinato a finire, proprio perché si basa sul sangue della popolazione indigena della terra occupata e il sangue è un equilibrio molto più fragile della resistenza che questa popolazione porta avanti. L’Occidente è molto ipocrita, da sempre crea narrazioni volte a delegittimare il diritto dei palestinesi a vivere nella propria terra, a coltivarla, a farla fiorire, e questo lo rende complice di quello che sta avvenendo. Ci chiediamo oggi come l’Olocausto della Seconda guerra mondiale sia stato possibile e se non prendiamo posizione subito contro questo nuovo nei confronti del popolo palestinese, e nei confronti di qualsiasi genocidio, un domani ci verrà fatta la stessa domanda. E noi dovremo rispondere, perché non esiste pace senza giustizia sociale».
Continua a portare avanti l’attività di artista circense?
«Per altri impegni personali non lo sto facendo. I circensi si reinventano ogni giorno cercando di far fronte al cambiamento e alla crisi post pandemia, la creatività e la capacità di ricreare numeri e spettacoli non mancano. Ma il circo tradizionale resta saldo a quelli che sono stati i passi precedenti dei capostipiti. C’è un incontro continuo tra presente e passato».