Tuttolibri, 29 marzo 2025
Il maestro della leggerezza che non amava il lieto fine
Sarà capitato quasi a tutti di pensare, almeno una volta: se a scuola ci avessero insegnato come funziona il mondo, invece di dirci che è bello e buono. D’altra parte il Novecento ha prodotto una letteratura per l’infanzia che per lo più privilegia il lieto fine o esalta i buoni valori come se si trovassero dietro l’angolo. Certo ci sono delle eccezioni. Oltre a Roald Dahl, c’è un altro gigante del genere che ha osato mettersi dalla parte dei bambini: Shel Silverstein, autore americano scomparso nel 1999. Silverstein ha un profilo complesso. È stato un fumettista di Playboy, cantautore di musica country per cui ha vinto un Grammy Award, compositore di celebri colonne sonore. E poi c’è il Shel Silverstein autore di libri per bambini. Ma, appunto, uno di quegli autori che ti dicono come davvero funziona il mondo. Insomma niente fiabe logorate da adorabili principesse in attesa di salvezza. Silverstein è chiaro in questo: se c’è salvezza, sempre che ci sia, deve venire da te. Dopo L’albero, il suo capolavoro, Orecchio Acerbo pubblica ora C’è una luce in soffitta (nell’ottima traduzione di Damiano Abeni, pp. 176, € 22, 6+), raccolta in versi che a dire la verità potrebbe essere letta anche da un adulto. Anzi, l’idea dello scrittore era forse proprio quella che a sfogliarlo fossero i genitori, prima dei bambini. Magari proprio quei genitori educati al lieto fine, convinti che il bene trionfi sempre sul male, persuasi che la rigidità delle regole dia sempre buoni frutti.
Si può essere più o meno d’accordo con le idee di Silverstein, ciò che è certo è che siamo di fronte a un autore che non parla a un “bambino ideale” – ovvero pensato dagli adulti – ma a un bambino reale. Un esempio? Oltre ai versi (piacevolmente disturbanti), a fare da spartiacque alla raccolta una deliziosa indignazione, una specie di Union for Children’s Rights, due pagine di bimbi indignati che sventolano cartelli per chiedere “Niente verdure lesse”, “Meno bagni e docce”. O ancora “Aumentare la paghetta”. Se si vuole creare un futuro lettore, è lì che bisogna battere, bisogna insomma fare in modo che il bambino si riconosca. Dalla fine dello scorso secolo si è fatta strada una letteratura che guarda ai più piccoli nei loro bisogni e desideri reali. Silverstein rappresenta perfettamente questa esigenza, nei versi di Preghiera del bambino egoista per esempio (quello che vuole tutti i giocattoli solo per sé) o in tutti quei mostri (Un rapido viaggio o Il Drago delle Grigie Gole) che divengono detentori di un potere che attrae i bambini perché è antagonista a quello della famiglia. Per intenderci: meglio subire la prova divorante dell’orco, purché mi liberi dalle pressioni autoritarie dei genitori. E di sicuro non troviamo nonni a raccontare fiabe consolatorie (Il vecchio e il bambino): piuttosto metteranno in guardia i nipotini dal mondo adulto. Ma sul mondo inaffidabile (e ipocrita) degli adulti aveva già aperto uno squarcio Roald Dahl. E certo non si possono ignorare antesignani del bisogno di indipendenza infantile come i protagonisti di Lewis Carroll o Astrid Lindgren. In Silverstein, di poesia in poesia, assistiamo alla lotta combattuta dai bambini per essere bambini. Non per restare bambini come Peter Pan, ma per vivere la propria infanzia senza che ci siano sempre altri a intervenire, mentire, alludere, imporre questioni di cui non viene mai rivelato compiutamente il senso.
Ma insomma i temi sono molti e autenticamente legati alla sensibilità della prima infanzia, dalla letteratura relazionale all’umorismo, perfettamente rappresentato nei contenuti ma anche nei giochi linguistici. Dal tema dell’identità a quello della paura, un capolavoro sulla questione è Esé, dove l’elenco è quello delle angosce infantili più vive. Ma Silverstein non è certo autore da indugiare troppo sulle incertezze, tant’è che si inventa anche l’antidoto in Terrore. Però attenzione, mai ci propone testi in cui trionfi il felice superamento dell’ostacolo. Piuttosto mette in mostra ciò che accade se l’ostacolo non verrà superato, con evocazioni ben più efficaci di un lieto fine. Ciò non significa che manchi una dimensione votata alla levità. Del resto Silverstein è scrittore davvero in grado di sfruttare a fondo le risorse che un approccio paradossale o parodico può offrire e, appunto, con l’intenzione di usare una personalissima leggerezza per capirne di più e raccontare meglio: «Fa’ un disegno un po’ matto» scrive in Metti qualcosa, «canta una canzone biascicata / usa il pettine come strumento musicale». Soprattutto: «metti al mondo una cosa leggera / che prima non c’era».