Tuttolibri, 29 marzo 2025
Le filastrocche sono giocattoli e la poesia per bambini non esiste
«Io sento il bisogno di stare coi bambini. Quando sono con loro mi sembra di ripiombare nella mia infanzia, in quel luogo di sapienza strana, come ho scritto nel Sermone ai cuccioli della mia specie, “quando ero un genio buono uscito da poco dalla lampada, e un filosofo ero, ma senza le parole, un grandioso poeta analfabeta, un artista senz’arte”. Proprio così mi sembrano i bambini e la loro compagnia è a volte la più alta che si possa desiderare». Gli occhi sono quelli della meraviglia, penetranti e curiosi. La voce, essenziale e vibrante, è quella di chi ha fatto della sottrazione un’arte e un modo di essere. E poi le parole, potenti – mai banali, mai inutili, mai gettate via – a rappresentare il suo ponte con il cosmo. Mariangela Gualtieri sfoglia con gioioso stupore la sua nuova creatura, intitolata semplicemente Album. Per pensare e non pensare: sfiora la carta, scruta il tratto minimalista delle illustrazioni, rilegge – pure divertita – quei vocaboli accostati in un flusso scanzonato e liberatorio. Lei, poeta, per la prima volta si è cimentata con le filastrocche; per la prima volta ha scelto di scrivere – e disegnare – per i cuccioli della sua specie. E per chi, il suo essere cucciolo di questa specie, non lo ha smarrito o abbandonato.
Mariangela, partiamo dal sottotitolo: è un libro per pensare o per non pensare?
«Il pensiero è importante ma lo è anche lo spensieramento, così nell’Album le facciate di sinistra propongono una filastrocca che va letta e compresa, mentre in quelle di destra c’è l’inizio di un disegno che va ultimato, ed è questo il luogo dello spensierarsi, lasciando fare alle mani e ai colori».
Quando e per chi è nato questo album?
«È nato due anni fa, nei giorni più bui dell’inverno – quando vado un po’ in crisi per via delle giornate così corte, con in mente qualche bambino in attesa di un nuovo gioco da fare insieme. Dunque è nato per i bambini che frequentano la mia casa, ma se lo guardo ora mi sembra fatto per tutti i bambini interiori. Vorrei chiedere agli amici adulti di mandarmi la foto di qualche pagina fatta da loro».
È figlio di un tempo felice?
«Direi che è stato un esercizio di quella che Amelia Rosselli chiama “la scienza della giocondità”, un esercizio di leggerezza. Mi alzavo, accendevo la stufa e ancora in pigiama mi mettevo a disegnare, e poi a trovare le parole più delicate per indicare, attraverso la filastrocca, come ultimare il disegno. Il pomeriggio a volte arrivava un nipote, in cerca di novità e felice di trovare pagine nuove».
Apparecchiare un tavolo, sistemare il giardino, cucinare un pasto caldo, tessere un maglione, rifare il letto: è un libro che ha a che fare con il “prendersi cura” delle cose e delle persone?
«Il mondo in questi ultimi anni ci ha messo in subbuglio e questo per me era forse un inconsapevole rito mattutino di rifondazione: ridisegnare un ordine semplice, rimettere in sesto qualcosa. Forse anche per i bambini è stato un modo di opporsi al grande scoppio di violenza a cui ancora assistiamo».
Cosa cerchi o cosa trovi nel disegno?
«Mi riposo dal peso dello scrivere e del pensare. Posso abitare la mia ebetudine e lasciar fare alle mani. Quello del disegnare e dipingere è un tempo contemplativo, una sorta di preghiera del corpo, delle mani».
Avevi già scritto filastrocche?
«A parte qualche filastrocca un po’ sanguinaria scritta per il teatro – e mai utilizzata – no, non ne avevo mai scritte».
Che parentela hanno filastrocca e poesia?
«A me sembra una lontanissima parentela. Ma è vero che sono appena al principio di questa scrittura».
La filastrocca per una bambina o un bambino è una porta per la poesia?
«Temo di no. È certamente una porta per la scrittura, la lettura, il ritmo, per il godimento delle parole, per la bizzarria, ma mi sembra che la poesia sia proprio un’altra cosa».
I bambini comprendono la poesia?
«Sono straordinari nel comprendere il verso, un verso, un verso per volta. Ho qualche dubbio sulla poesia per bambini, forse perché non la conosco abbastanza, ma mi pare tolga complessità. Dunque quando capita propongo loro le poesie che leggo io, ma avendo cura di non caricarli troppo. Mi pare funzionino molto poesie con anafore, espressioni che tornano più volte. Ho lavorato più spesso con gli adolescenti, mentre coi bambini ho più che altro esperienze giocose».
E come si può avvicinare un adolescente alla poesia?
«Facendo capire loro che la poesia ha tutti i poteri della musica. Soprattutto cerco di farla arrivare come la musica, cioè come forza acustica, ad un buon volume, in modo che siano immersi in un bagno sonoro molto sensibile. Allora entrano in gioco la gioia e il godimento del corpo e la poesia smette di essere solo qualcosa di “colto” e mentale, diventa anche una forma di energia».
Vai spesso nelle scuole a recitare poesie agli adolescenti: che esperienza è?
«Preferisco portare ragazze e ragazzi in teatro, sia per far sentire loro la meraviglia del rito teatrale, sia perché lì posso disporre di un buon impianto audio e di una buona acustica. È sempre un’esperienza sorprendente e commovente, non solo per me ma per tutti gli adulti che per diversi motivi sono presenti. Si coglie perfettamente la denutrizione psichica dei ragazzi, la loro “fame d’anima” se mi si passa l’espressione e soprattutto la loro sorpresa, il loro stupore. Sono stupefatti e incantati. In primo luogo perché sono davanti ad un poeta vivo, non morto. Poi perché comprendono quello che dico, e da ultimo perché la poesia li scaraventa in quella profondità da cui tutto li tiene accuratamente lontani. Quella profondità che di certo hanno abitato nella prima infanzia, un luogo non frequentato ma immediatamente riconosciuto. L’affascinantissima tecnologia che è toccata loro, li tiene sempre alla finestra: non sanno quasi nulla della casa, della stanza del tesoro, dei loro giardini interiori. Tutta la loro vita si svolge fuori, quasi senza punti di riposo».
Tu, sola, con la tua voce e il tuo corpo, fissando negli occhi ragazze e ragazzi: come fai a catturarli?
«Cerco di recitare, fra i miei versi, quelli che sento più vicini alla mia parte adolescente, a quella inquietudine che è rimasta viva in me così a lungo e che ricollego alla mia età giovanile – in me sempre presente».
Cosa succede al termine di questi incontri? Cosa ti dicono, cosa ti chiedono?
«Da quello che dicono nel dialogo che facciamo alla fine, mi pare si sentano toccati da alcuni versi, e dunque provano la strana impressione che siano stati scritti per loro e a volte addirittura da loro, proprio come capita agli adulti quando incontrano certe poesie».
Che rapporti hai – e hanno – con il silenzio?
«Nei laboratori che faccio con piccoli gruppi di adolescenti, su loro richiesta, incontri sulla lettura di versi ad alta voce, mi pare comprendano subito che la poesia è una tessitura di parola e silenzio. Il silenzio vale per me quanto la parola, perché la poesia è fatta di silenzio, è impregnata di silenzio e questo viene esaltato dal microfono e dall’apparato di amplificazione della voce».
A proposito di silenzio: in una sorta di contaminazione di riti sonori, nel concerto di Jovanotti l’unico momento in cui gli strumenti tacciono è per lasciare spazio alla tua voce in “Che cosa sono i fiori?": la poesia è – o può essere – pop?
«Sì, se ben protetta può essere pop. Lorenzo ha una particolare sensibilità nel maneggiare la poesia, e consapevolezza. E coraggio! Il fatto che abbia messo nel bel mezzo del suo concerto un vuoto in cui la parola galleggia da sola, senza accompagnamento, questa sua fiducia nel verso, rende un buon servizio alla poesia, e non solo alla mia, come dimostra anche la raccolta che ha curato con Nicola Crocetti, mitico editore di poesia».
Essere educati alla poesia significa essere educati a cosa?
«Significa abitare l’ambito in cui la nostra lingua si impenna, si dà a noi nel suo splendore massimo, nella sua più alta intensità, e le parole tornano vicine al calco d’origine, brillando di una strana e nuova vitalità».
Iniziare ogni giornata di scuola leggendo ad alta voce un verso: perché?
«Con gli adolescenti, ma anche con i bambini, non succede nulla se non ci si innamora reciprocamente, se non entra in campo Eros col suo di più di vita. E un buon modo mi pare sia cominciare con un verso, magari come faccio spesso, proponendo un gioco: un verso con una parola nascosta, chiedendo loro di indovinarla. Nel percorso che si fa, dai vocaboli più banali a quelli più pregnanti, fino alla scoperta della parola chiave, si comprende subito cosa sia un verso, quanta potenza e magia contenga, e in quella piccola ordinaria parola che, messa lì, splende e lo incendia».
Tra le tante filastrocche che hai scritto una ti ha sorpreso?
«Essendo alla mia prima esperienza direi che quasi tutte mi hanno sorpresa: le parole si infilano come in una collana e sembra che ridano. Amo la filastrocca col gatto, con quel finale che si è scritto da solo “una gattina a me vicina/ così giochiamo/ a libro chiuso/ e ci baciamo/ muso con muso”. La vita del libro chiuso è ben misteriosa. O anche quella con la figuretta sotto la doccia e che comincia: “Acqua come sei bella!": è l’entusiasmo che provo a volte facendo la doccia».
Sono passati 10 anni dalla tua raccolta: “Le giovani parole": in queste filastrocche le parole sono giovanissime?
«A me sembra che nelle filastrocche le parole siano meravigliosi giocattoli. In poesia invece sono sempre giovani parole. Non invecchiano mai».
Se un adolescente ti chiedesse: “Mariangela, cos’è una poesia?”, quale sarebbe – oggi – la tua risposta?
«Direi: la migliore alleata. In questo tempo direi che è una delle virtù contrarie alla violenza che agita il mondo».—