repubblica.it, 28 marzo 2025
Guido Chiesa: “Sto vivendo una conversione alla fede, non piegherò più la realtà all’ideologia”
Una svolta esistenziale. Che per un autore coincide con mutamenti che riguardano lavoro, vita personale, attitudine della mente. È successo a Guido Chiesa, torinese classe ’59, debuttante nel ’91 con Il caso Martello, impegnato in un cinema interessato al sociale anche quando usa gli strumenti della commedia. Ora, con Per amore di una donna, in cartellone al Bif&st, descrive in forma di racconto la nuova prospettiva: «Ho messo in discussione l’idea del conflitto come idea fondante. Si è fatta strada in me la convinzione che la vita vinca sul conflitto e sulla morte, e che ciò accada attraverso l’amore tra le persone, inteso come concreto atto di accettazione degli altri e di sé. Questa visione ha provocato mutamenti totali nella mia vita».
Quali?
«Il mio atteggiamento verso i figli è cambiato. Mi sono reso conto che impormi, essere autoritario, non serviva, e che dovevo, invece, mettermi dalla loro parte, ascoltarli. È una presa di coscienza che mi è costata molto, pensavo di essere un ottimo padre e invece non lo ero affatto. Mettevo in pratica le mie convinzioni, introiettate dall’educazione familiare ricevuta, e anche un po’ dall’ideologia. Ma quando vuoi piegare la realtà alle ideologie, vengono fuori i problemi».
Le ideologie fanno parte del suo percorso professionale, pensiamo a film come Lavorare con lentezza, sul movimento del ’77. Le sue convinzioni politiche sono cambiate?
«Avevo un modo più materialista di guardare le cose del mondo, ero convinto della necessità del conflitto. Oggi penso sempre che bisogna stare dalla parte degli ultimi, dei lavoratori, dei deboli, ma non credo più nella dialettica che implica il conflitto. Un conto è la violenza difensiva, un altro quella aggressiva, che non condivido affatto».
Il suo ripensamento coinvolge anche le convinzioni religiose?
«Sto vivendo un lungo processo di conversione alla fede cattolica, molto faticoso, pieno di dubbi, ma, del resto, anche il Papa dice che avere dubbi è un bene».
Sua moglie Nicoletta Micheli firma con lei la sceneggiatura del film. La segue in questo suo cammino?
«Siamo insieme da oltre 27 anni, ho scoperto, anche nella mia relazione matrimoniale, che i conflitti possono essere superati amando l’altro».
Da molti anni vive a Roma. Che rapporto ha con Torino?
«Quasi nessuno. E ora è così anche dal punto di vista simbolico, mia madre è mancata pochi giorni fa, non abitava più a Torino, aveva 96 anni ed era malata di Alzheimer da tanto. Con il funerale si chiuderà un cerchio che riguarda anche il legame con la mia città».
Da dove è nata la voglia di allontanarsene?
«Torino mi ha dato molto, ma con la borghesia torinese non ho mai avuto un buon rapporto. Vengo dalla provincia e mi sono sempre sentito un provinciale. Anche per questo mi piaceva Beppe Fenoglio, provinciale pure lui, ma con l’occhio attento alla cultura anglosassone, io ho fatto un po’ lo stesso».
Per amore di una donna, tratto dal libro The Loves of Judith di Meir Shalev, si svolge tra due epoche, Anni ’70 e Anni ’30, sulle orme di due donne, Esther, 40enne americana che ha vissuto in Palestina, e Yeudith che abita in un villaggio di coloni. Perché ha scelto questo tema?
«L’indagine di Esther è frutto della nostra invenzione e rappresenta un po’ il nostro punto di vista di italiani, lontani dalla cultura e dall’esperienza di quegli ebrei che all’inizio del’ 900 lasciarono l’Europa per sfuggire alle persecuzioni, con il progetto di una nuova società, egualitaria e solidale. Erano pionieri, persone con cultura socialista, in contrasto con le oppressioni subite, prima dallo zarismo, poi dallo stalinismo. Nei kibbutz degli Anni ’20 e ’30, regnava la parità di genere, le donne erano libere, con costumi disinvolti».
È difficile oggi abbracciare quella prospettiva?
«Non bisogna confondere la storia dell’ebraismo con quella di Israele. Né pensare che tutti i musulmani siano come Hamas. Dobbiamo ricordare che non tutti gli israeliani la pensano allo stesso modo sul conflitto. L’autore del romanzo Shalev era un forte fautore del dialogo tra i due popoli. La società israeliana è molto polifonica».
Qual è il centro del film?
«Racconta come gli esseri umani, anche nei periodi più bui, abbiano continuato a innamorarsi, fare figli, formare famiglie. A vivere. E la vita è sempre l’antidoto al conflitto»