repubblica.it, 28 marzo 2025
Intervista a Ezio Greggio
Parlando con Ezio Greggio bisogna mettere subito le carte in tavola e, visto che con “Una vita sullo schermo” arriverà al Teatro Alfieri martedì 1 aprile, la prima domanda è se non sia uno dei suoi proverbiali scherzi. «Assolutamente no! Non potrei mai fare una cosa del genere al Piemonte che è la mia regione, essendo nato a Cossato. In particolare alla città della Juve, la mia squadra del cuore».
Ezio, sul palco porterà cinquant’anni di carriera…
«Sono addirittura di più, visto che ho mosso i primi passi nel 1972 a Telebiella con Peppo Sacchi. Quello era vero pionierismo perché all’epoca esisteva solo la Rai e guai a chi si affacciava a quell’ambiente. Tant’è che arrivò il ministro Giovanni Gioia e fece tagliare i cavi, ma Peppo li riallacciò e ricominciammo. Successivamente la causa instaurata fu vinta da Telebiella, sgretolando il monopolio Rai e aprendo la strada alle tv private».
Come arrivò al mondo dello spettacolo?
«Forse è il fatto di essere nato in provincia, dove tutto è più complicato e, anche per questo, lo stimolo a darsi da fare è maggiore. Nella tv in bianconero vedevo personaggi del calibro di Vianello e Sordi, andavo al Cinema Micheletti dove passavano pellicole di Totò, Peppino, Jerry Lewis, Mel Brooks, e mi si è accesa la passione».
Essere nato lo stesso anno della televisione, il 1954, è stato un segno?
«Esatto. Siamo coscritti, io e lei ci diamo del tu e abbiamo una lunga storia d’amore».
Avendo superato i cinque decenni di tv, c’è un grazie che deve dire e non ha ancora avuto modo di esprimere?
«Molti, ma li ho espressi tutti, non c’è nulla in sospeso. Il primo è ad Antonio Ricci con cui ho fatto tanto, dal primo incontro nel 1983 con la nascita di “Drive In”, passando da “Striscia”, “Paperissima”, “Veline” e altro ancora. Per me lui non è solo l’autore della vita, ma un parente stretto. Poi, a Carlo (che non c’è più) ed Enrico Vanzina, con cui ho progetti in cantiere. A Giancarlo Nicotra, il primo regista che mi fece debuttare in Rai. A Peppino De Filippo, che ho avuto la fortuna di conoscere e la cui frequentazione è stata fondamentale. A Mel Brooks, il cui incontro è stato professionale e di grande amicizia».
Invece, qualche delusione, magari dal mondo del piccolo schermo?
«Tantissima dalla tv che non faccio io, per fortuna. Come i reality, ignobili, dei quali “Striscia” spesso si occupa. Non credo che la tv giusta sia quella, sto spesso fuori Italia e quando sono in Inghilterra o negli Stati Uniti trovo che la tv sia meno anacronistica, più in linea con i tempi. In questo senso penso che “Striscia” sia rimasta uno dei capisaldi per la capacità di raccontare la contemporaneità. Quindi sono felice di averne fatto parte dall’inizio e spero di continuare fino all’ultimo».
Perché il teatro?
«Arrivo dal cabaret e per anni ho fatto spettacoli nei teatri, nelle discoteche, nelle arene estive e nelle feste politiche di tutte le fazioni e i colori. Poi sono passato alla televisione e al cinema, con ottimi risultati e riconoscimenti. A un certo punto mi sono reso conto di avere molte cose da raccontare, il pubblico mi dimostrava affetto e ho detto: perché no? Ho pensato fosse il momento giusto e ho costruito, con Marco Salvati e Armando Vertorano, con la produzione di Stefano Francioni, questa pièce, un monologo all’americana. Non sarò semplicemente sul palco a parlare, ma ne combinerò di tutti i colori coinvolgendo il pubblico».
Visto che di sogni ne ha realizzati parecchi, qual è quello ancora nel cassetto?
«Vorrei comprarmi una cassettiera nuova, perché ne ho talmente tanti, di sogni, che i cassetti non bastano. Questo è un mestiere che se sogni e fai sognare, funziona bene per te e per il pubblico».