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 2025  marzo 28 Venerdì calendario

Intervista a William Boyd

William Boyd, lei è una spia?
«No».
Mai stato, nei suoi
meravigliosi 73 anni?
«Mai approcciato dai servizi».
E quando ha incontrato la sua prima spia?
«In famiglia. La cugina di mia moglie era sposata con il capo dell’MI6 negli anni della Thatcher. Noi non lo sapevamo.
Lui sosteneva di essere un diplomatico, ma io avevo forti sospetti… Lo abbiamo scoperto solo quando i servizi segreti hanno reso noti i nomi dei direttori dal 1911, prima chiamati solo con la lettera “C”. E nella lista ecco spuntare proprio lui, Chris! Ossia Sir Christopher Curwen a capo del MI6 dal 1985 al 1989!».
Incredibile.
«Iniziò nel Sud-est asiatico, nel reggimento di cavalleria 4th Queen’s Own Hussars dell’esercito britannico. Poi Washington e Ginevra, prima di tornare a Londra dove divenne capo dell’odierno MI6. Ci chiedevamo sempre: ma Christopher cosa farà in Svizzera? In realtà, lì era l’ufficiale di collegamento dei Servizi britannici. Non a caso Sefton, il fratello del protagonista del mio ultimo romanzo La luna di Gabriel, vive a Ginevra. E sa di Oleg Gordievsky?»
La leggendaria spia doppiogiochista russa, morta qualche giorno fa nel Surrey?
«Proprio lui. Fu Curwen, morto nel 2013, a organizzare la sua defezione dal Kgb in Inghilterra, dove Gordievsky avrebbe condiviso una valanga di informazioni in Occidente. Anche un mio vicino di casa era una spia».
Qui, nell’amena via di Chelsea dove risiede?
«Yes! Si chiamava Beresford Palin, era il classico gentiluomo inglese.
Viveva proprio laggiù, vede? Me lo confessò prima di morire qualche anno fa. Lo reclutarono dopo la Seconda guerra mondiale, a Lambeth. Ma chissà quante altre spie ho conosciuto senza saperlo».
Siamo circondati. E lei queste cose non le aveva mai rivelate.
«Già. E sì, siamo circondati e sorvegliati, anche da innumerevoli telecamere di sicurezza. Ma è così che si regge questo Paese: su costanti flussi di informazione...».
Anche “La Luna di Gabriel” è una storia di spionaggio tra l’Africa e la Londra degli anni Sessanta, in piena guerra fredda: a un giornalista capita uno scoop mondiale e la sua vita diviene un inferno di spie. Sono meglio le spy story del secolo scorso?
«Oggi la tecnologia è esasperata e lo spionaggio è disumanizzante, in quanto soprattutto sorveglianza elettronica. Durante la guerra fredda era diverso».
In che modo?
«Ero ragazzino negli anni Sessanta. La crisi dei missili di Cuba, l’omicidio di Kennedy, le manipolazioni della Cia inAmerica Latina mi hanno segnato. Così come Patrice Lumumba in Congo, la cui uccisione è centrale in questo romanzo. Ma soprattutto mi cambiò la vita lo scandalo delle spie sovietiche “Cambridge Five” tra i sofisticati intellettuali della sinistra tra cui Kim Philby, l’affascinante agente che fece il doppiogiochista per 20 anni. Perché la spy story è come la vita».
In che senso?
«Tutti diciamo bugie e veniamo traditi.
Al pub, al lavoro, in famiglia. E quando non puoi fidarti di nessuno intorno a te, dal cameriere a tua moglie, non puoi più vivere. Questo è il mio quarto romanzo del genere, dopo Inquietudine, Aspettando l’alba e Solo,della serie ufficiale di James Bond nel 2013».
Ha visto che Bond se l’è comprato Amazon?
«Sì, la cosa non mi ha sconvolto. Quando gli eredi di Ian Fleming mi chiesero di scrivere un romanzo della saga, mi rilessi tutti i quattordici in ordine cronologico. Ho lavorato con Sean Connery e Pierce Brosnan, Daniel Craig è mio amico. Ma i film su Bond sono stati sempre distanti anni luce dalla letteratura di Fleming. Devono catturare il pubblico mondiale, con 007 affascinanti e irresistibili. Il Bond di Fleming invece è problematico, incarna le idiosincrasie del suo creatore. Ed è alcolizzato proprio come Fleming, che si scolava due bottiglie di vodka al giorno per autodistruggersi e crepare a 54 anni. Ricorda Bond in Vivi e lascia morire, quando realizza che il tredicesimo doppio whisky della giornata è stato un errore? E poi il razzismo, gli stranieri ridicoli, le donne che non possono guidare: tutti questi pregiudizi di Fleming non sono quasi mai arrivati nelle versioni cinematografiche».
Bond preso da Amazon non è una sconfitta per la Gran Bretagna?
«Bond non era nemmeno inglese, bensì mezzo scozzese e mezzo svizzero. E quando, ne L’uomo dalla pistola d’oro, gli viene offerta l’onorificenza dalla regina, lui rifiuta dicendo: “Io sono un campagnolo scozzese”. Un po’ come me, anche se sono nato e cresciuto nella Gold Coast africana ex colonia inglese, dove mio padre era medico e dove ho ambientato il mio Bond. Non credo in questi cliché».
Mentre tutti credettero alla “truffa” ideata da lei e David Bowie nel 1998: un libro su un astrattista, Nat Tate, con tanto di opere false.
«Sì, ahaha!».
Ma perché?
«Io e Bowie eravamo tra gli editor di
Modern Painters. Il direttore fa: “Vorrei anche un po’ di fiction...”. Io dico: “Inventerò un pittore dal nulla!”. E Bowie: “Pubblichiamo un libro a suo nome!”. Così nacque Nat Tate.
David scrisse pure la quarta di copertina, vede?».
La faccia di Tate dove la prese?
«In alcune vecchie foto trovate a una fiera di antichità in Francia. Un tizio a caso, mai saputo il suo nome. Bowie decise di lanciare il libro con due party, uno a Londra e l’altro a New York nello studio di Jeff Koons. Che non sapeva della truffa.
Quando lo scoprì, si infuriò con me e David. Replicai che anche questa è arte, my friend».