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 2025  marzo 25 Martedì calendario

Giappone, 46 anni nel braccio della morte per errore: anziano riceve 1,4 milioni di risarcimento

Quanto valgono 56 anni in carcere da innocente, di cui 46 nel braccio della morte? Secondo la giustizia giapponese, la risposta è 217 milioni di yen, vale a dire l’equivalente di 1,45 milioni di dollari. Iwao Hakamada aveva 32 anni quando è stato condannato a morte. Era il 1968. Lo scorso settembre, 56 anni dopo, è stato assolto. E ora gli è stato riconosciuto il risarcimento, al termine di una lunga battaglia legale, quando di anni ne ha però ormai 89. Hakamada, un ex pugile professionista, era stato giudicato colpevole di aver ucciso il suo capo, la moglie del suo capo e i loro due figli. Salvo poi essere scoperto innocente, in un caso che continua a generare enormi discussioni e polemiche in Giappone. Gli avvocati avevano chiesto il risarcimento più alto possibile, sostenendo che i 46 anni nel braccio della morte (un record mondiale) hanno avuto ripercussioni sulla sua salute mentale. Il giudice Kunii Koshi, che ha accolto la richiesta, ha convenuto che Hakamada ha sofferto di un dolore mentale e fisico «estremamente grave». Il governo giapponese pagherà il risarcimento finanziario dell’ex pugile, in quello che i media locali definiscono il più grande risarcimento per un caso penale nella storia del Paese.
Secondo l’accusa dell’epoca, avrebbe ucciso il capo della fabbrica di miso dove lavorava e la sua intera famiglia, con la moglie e i loro due figli adolescenti. Dando poi fuoco alla loro abitazione. La vicenda portò notevole pressione sugli inquirenti dell’epoca, desiderosi di trovare un colpevole. Una volta arrestato, Hakamada fu rapidamente portato a processo e condannato all’impiccagione. Lui si è sempre professato innocente, sostenendo di essere stato costretto a una prima frettolosa confessione da parte degli investigatori durante un “brutale interrogatorio” dove sarebbero avvenuti anche degli abusi fisici. I suoi avvocati hanno invece sempre affermato che la polizia avrebbe fabbricato le prove a suo carico.
Dopo decenni, era riuscito a far riaprire il caso grazie all’insistenza della sorella Hideko, 91 anni, che lo ha accolto nella propria abitazione da quando è stato rilasciato dal carcere nel 2014 in attesa del nuovo verdetto. Il cuore del nuovo processo riguardava l’affidabilità della prova «regina», riguardante i vestiti macchiati di sangue che, secondo i pubblici ministeri, Hakamada indossava al momento dell’omicidio. Quando ha ordinato un nuovo processo nel marzo 2023, dopo anni di controversie legali, l’Alta Corte di Tokyo ha affermato che c’era una forte possibilità che gli abiti fossero stati messi dagli investigatori in una vasca di miso. Gli avvocati della difesa hanno affermato che gli esami del DNA sui vestiti hanno dimostrato che il sangue non era di Hakamada.
Nonostante tutto, i pubblici ministeri avevano nuovamente richiesto la conferma della pena di morte. Ma i giudici del tribunale distrettuale di Shizuoka hanno stabilito che tre prove sarebbero state inventate, tra cui la confessione di Hakamada e la paternità dei capi di abbigliamento incriminati.
Ora la parola fine, con il riconoscimento di un risarcimento che non potrà mai restituire a Hakamada la vita che non ha potuto vivere. La sua vicenda potrebbe dare nuovo vigore alle richieste di abolizione della pena di morte in Giappone, che insieme agli Stati Uniti è l’unico Paese del G7 a prevedere la condanna capitale nel suo sistema giudiziario. Peraltro con metodi particolarmente crudeli, visto che l’esecuzione avviene con impiccagione e con un minimo preavviso di poche ore che non lascia nemmeno il tempo di parlare per un’ultima volta con i propri cari. Sin qui, però, non ci sono segnali di passi concreti verso l’abolizione.