La Stampa, 25 marzo 2025
Intervista a Livia Pomodoro
«Scrivere un’autobiografia? Ma per carità». Livia Pomodoro ha altri programmi: «Sto visitando le abbazie europee, da Canterbury a Tilburg. Un pellegrinaggio che terminerà a dicembre, a Roma». Un modo, spiega, per «approfondire» quella comunità che è l’Europa. Ci accoglie nel suo ufficio colmo di libri e oggetti. Tra questi un cavallo-giostra a grandezza naturale. «L’ho preso da un vecchio bar che stava smantellando. Colleziono cavalli: ne ho migliaia».
Nata a Molfetta 85 anni fa, Pomodoro è la prima donna di tantissime cose. Tra le prime a diventare magistrato in Italia, dove la professione è stata interdetta alle donne fino al 1960. Oggi è anche presidente di un’associazione culturale no profit cui fa capo un teatro milanese a Città Studi: il teatro No’hma. E dove, rigorosamente, non si paga il biglietto.
Perché questa scelta?
«La cultura deve essere libera e a portata di tutti. Ne ho fatto una missione personale, in memoria di mia sorella Teresa».
Sua sorella gemella, drammaturga e attrice, è venuta a mancare nel 2008. Che ricordo ne ha?
«Eravamo più che legatissime anche se diverse: lei era molto ironica e mi prendeva spesso in giro per il mio lavoro. Alcuni spettacoli li ha fatti proprio per il gusto di provocarmi. Poi a lei piacevano i cani, io invece sono gattofila convinta, ammiro i gatti per la loro indipendenza. Né io né Teresa abbiamo avuto figli, è andata così. Avevamo quel rapporto particolare che solo i gemelli hanno. Siamo nate 16 anni dopo nostro fratello maggiore, maschio come gli altri due. Eravamo le più piccole di cinque figli».
Cosa facevano i suoi genitori?
«Mio papà faceva il farmacista, mamma casalinga. Volevo studiare medicina, ma mio padre mi dissuase. Diceva che non reggevo alla vista del sangue, ero troppo emotiva. Così ho studiato legge all’Università di Bari».
Laurea con il massimo dei voti in Diritto internazionale privato e poi borsa di studio a Ginevra alle Nazioni Unite. Nel 1965 ottiene un incarico da magistrato a Milano. Donna e pure del Sud, è stata vittima di pregiudizi?
«Ero giovanissima, avevo 25 anni quando arrivai insieme a una collega pugliese al tribunale di Milano. Vivevo in corso 22 marzo ospite di un’amica di famiglia. Mi colpì che l’interesse per noi fosse personale, ci facevano tante domande sulla nostra vita sentimentale. Erano curiosi per queste due ragazze sole e magistrate in un ambiente di maschi. Ma né io né lei abbiamo mai avuto nessun problema, non ci siamo mai fatte intimorire, anzi, ci siamo integrate perfettamente».
Di quel tribunale Livia Pomodoro diventerà presidente. A proposito, come la dobbiamo chiamare: presidente o presidentessa?
«Un inutile dibattito che distrae da questioni più urgenti. Anche quando mi chiamano semplicemente Livia va bene, non è il titolo o la declinazione che fa l’importanza della persona».
Milano ormai è la “sua” città, di cui è pure un simbolo: il 14 marzo ha ricevuto dal sindaco Beppe Sala il premio “Una Grande Vita”. Lei è cresciuta in una famiglia di artisti.
«I miei cugini Arnaldo e Giò sono stati due dei più grandi scultori italiani contemporanei. Ci siamo sempre frequentati molto qui a Milano. Vengo da una famiglia di grandi intellettuali per cui, nonostante la mia carriera, mi sentivo quasi in soggezione, mi dicevano che ero un’intellettuale prestata alla giustizia».
Un aggettivo per descrivere la sua vita?
«Molto avventurosa, è stata tutta un rischio. Come quando andai in Angola vent’anni fa convincendo l’Onu a farmi mettere in piedi un tribunale per i minori in un Paese devastato dalle guerre civili. E poi, tanti anni sotto scorta».
Della morte di Giovanni Falcone – di cui era stretta amica – e di Paolo Borsellino, vissute in prima persona mentre era al dicastero di Grazia e Giustizia, preferisce non parlare. Cosa è per lei la paura?
«So cosa significa la paura, sono stata pluri-minacciata. Non sono una persona particolarmente coraggiosa, ma sono una persona molto razionale. Ho sempre combattuto così le mie ansie: razionalizzando. Di certo mi ritengo fortunata perché ho avuto il privilegio di vivere due vite: il diritto prima e ora il teatro, che mi appassiona e mi fa sognare un futuro armonioso e bello per l’umanità intera».
Da due anni sta girando tutta Europa, perché?
«Sto visitando le Abbazie – da Canterbury a Tilburg – e i microcosmi che le circondano. Un pellegrinaggio che terminerà nel dicembre 2025, a Roma. E che mi ha permesso di approfondire il modo di essere comunità. Ho visto la ricchezza dell’Europa e il bisogno di stare insieme. Tutti gli uomini dovrebbero condividerlo, al di là delle loro ideologie. Ritrovare il senso di comunità. Da lì, forse, possiamo ripartire».
Cosa ne pensa dello scenario internazionale, tra presidenza Trump e guerre?
«Il mondo deve ritrovare il senso di umanità. Sono preoccupata per alcune espressioni di esercizio di potere semplificato, che non tiene conto della realtà e che vuole trasformare tutto in profitto. La parola potere ha due accezioni. Una negativa: quando è sopraffazione, dominio dell’esistente a proprio vantaggio. L’altra, invece, consiste nel mettere a disposizione tutte le opportunità possibili per l’umanità nella sua interezza, con un’attenzione particolare ai più fragili. La seconda è quella che mi ha guidata per tutta la vita».
Intanto avanzano tecnologia e l’intelligenza artificiale. Un pericolo?
«Sia chiaro, non sono contro il progresso. Soprattutto in campo medico. Ma l’IA mi spaventa quando rischia di distruggere la creatività dell’umano. Ho il timore che impigrisca, abbassi il livello di capacità delle persone di assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Il mio antidoto personale è il teatro, che è bellezza ma anche riflessione. Bisogna resistere attraverso la cultura e ricercando un rapporto, ormai perduto, con la natura».