il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2025
Noi e la mafia: mezze verità. “Bombe, ladroni e omertà”
Il primo morto ammazzato Davide Enia l’ha visto a otto anni, mentre tornava a casa da scuola. “A Palermo è successo a tutti. E se non l’hai visto tu, è capitato a tuo fratello o a tuo cugino… C’è stata una prossimità con la morte così forte che ci mancavano le parole adatte per raccontarla. La reazione era inventarle”, spiega il regista, in libreria con Autoritratto (Sellerio), il testo del suo ultimo spettacolo, in scena da stasera al 17 aprile al Piccolo Teatro Grassi di Milano. È un lavoro a metà tra l’autoanalisi e una potente orazione civile che racconta l’impatto di Cosa Nostra sulla vita dei siciliani. “Ho cercato di fare i conti con il grande rimosso generazionale che è il rapporto nevrotico avuto con la mafia”.
Perché nevrotico?
Perché l’elemento che ci crea la nevrosi noi lo banalizziamo fino a rimuoverlo o lo mitizziamo. Comunque non lo affrontiamo per quello che è. Altrimenti dovremmo iniziare a comprendere pure le affinità che ci legano a quell’elemento.
A proposito di affinità: racconta che la sua prima amicizia alle elementari nasce quando un ragazzino si fa la pipì addosso e lei non lo dice alla maestra. Lealtà o omertà?
È tutto quello che compi dopo che riempie di significato i tuoi gesti. Certo la dottrina del silenzio la impariamo da subito.
In Sicilia, alle elementari, a un certo punto Buscetta non era più il nome del pentito, ma un aggettivo dispregiativo: un’offesa.
Siamo cresciuti con la dottrina del silenzio, che serve soltanto a mantenere posizioni di potere. Infatti proprio Buscetta diceva che Cosa Nostra è il regno dei discorsi incompiuti. Viviamo in un Paese che continua sempre a secretare tutto: ancora oggi non abbiamo la verità su Ustica.
Sempre quel suo compagno di scuola, dopo la strage di Capaci, dice: “Ma crediamo che ci diranno la verità?”. Le giro la domanda: ce l’hanno detta tutta la verità?
Ci sono tante domande che non hanno avuto risposta. Ancora oggi non sappiamo chi quel giorno avvertì i mafiosi che Falcone avrebbe preso l’aereo il 23 maggio. È necessario dire come sono andate le cose, che è l’unico modo per poter perdonare. Ma nel Paese delle mezze verità, non è possibile superare il trauma.
Contesta anche il fatto che spesso Cosa Nostra è stata raccontata solo come folclore. Una dinamica che riguarda anche le stragi, spesso narrate nella loro versione pacificata: i cattivi hanno perso, i buoni hanno vinto, non c’è altro da scoprire. È d’accordo?
Sono talmente d’accordo che voglio dirlo in un altro modo: i ladroni accanto a Cristo non sono lì per confermare la sua morte, ma per occultarla. È tutto rumore di fondo per non affrontare davvero qualcosa che era inevitabile accadesse. Le stragi non sono un meteorite che cade sulla Sicilia.
Se non sono un meteorite, cosa sono?
Cosa Nostra ha dei tratti come il familismo amorale che sono delle nostre famiglie. Quanta gente per proteggere un parente mente, falsifica, strumentalizza? Secondo me, è questo il principio di tutto.
Dice che il meccanismo di reazione alla morte era inventare le parole: in che senso?
Per non dire che era stato commesso un omicidio, a Palermo è stato inventato il neologismo “ammazzatina”: si uccidevano tra loro dunque non era un vero assassinio. Minimizzazione, ma anche un modo nevrotico di rifuggire a una quantità di morte ingestibile. Non avevamo le parole per nominare davvero quello che accadeva. Il vocabolario è venuto fuori solo con le bombe: quelle come fai a negarle?
Tutti ricordano dov’erano il giorno della strage di Capaci e chi non lo ricorda spesso inventa. Lei invece no.
Non è un artificio retorico: avevo 18 anni eppure non ricordo nulla. Evidentemente ho avuto un violento impatto emotivo, un trauma profondo.
Però ricorda bene il giorno in cui uccisero Borsellino: come mai?
Forse perché lo stesso meccanismo di difesa che mi ha fatto rimuovere la prima strage per la seconda mi ha imposto di fotografare ogni istante. Capaci scatena in me uno “choc hiroshimatico”, mentre via D’Amelio è Nagasaki. E poi Falcone lo ammazzano in autostrada, Borsellino invece in città. E dopo neanche due mesi.
A cosa serve oggi la memoria?
Da sempre è un’operazione soggettiva di ricalibrazione delle tracce del passato per giustificare o attaccare il presente. Prima, però, la memoria richiederebbe studio. Ma quasi nessuno studia più.
Rischia di diventare un alibi?
Sì, per non approfondire davvero gli accadimenti. Come facciamo oggi a parlare di memoria in una Regione che ha un’evasione scolastica così alta? È tutto drammaticamente collegato.
Quanto è lontana la fine?
Servono cinque secoli.
Addirittura.
Il trauma per essere superato ha bisogno di essere nominato. È necessaria una rivoluzione linguistica che ancora non si intravede all’orizzonte.