Il Messaggero, 25 marzo 2025
Jon Fosse, un Nobel a Roma: «Scrivo, prego, vivo con il re. E ora col Papa»
«Quando ho vinto il Nobel per la letteratura, nel 2023, ho ricevuto una lettera personale di papa Francesco, molto commovente, scritta a mano con una calligrafia piccola piccola». A parlare è lo scrittore norvegese Jon Fosse, che nel 2012 si era convertito al cattolicesimo e che allora spiegò: «È stato Maister Eckhart a influenzare la mia fede e quella di mia moglie. Se potevano essere cattolici Eckhart e mia moglie potevo esserlo anch’io». Anche per questo avvicinamento alla fede, racconta quest’uomo, che pare un santone con il codino imbiancato e i modi gentili, è stato invitato in Vaticano. Lo incontriamo in una libreria consacrata alla religione, a due passi dal colonnato di San Pietro. «In questi giorni abitiamo a Santa Marta, siamo ospiti del Vaticano. È una strana sensazione, vivere al piano di sopra rispetto al Santo Padre, mangiare nella stessa mensa abitualmente frequentata da lui. Sono molto felice che stia meglio, che abbia potuto tornare a casa».
Ha potuto incontrare il Papa?
«Non ancora. Da quello che mi hanno confidato, c’era la volontà di incontrarmi. Ma ancora non è potuto succedere, a causa della malattia. Forse in seguito, se sarà possibile».
Oggi lei sarà l’ospite d’onore della prima anteprima del Festival Letterature, e ha portato un testo inedito che sembra una preghiera. È corretto definirlo così?
«Credo che, in qualche modo, tutta la mia scrittura sia una forma di preghiera. È una cosa che dissi una volta, molti anni prima di convertirmi».
Roma cosa rappresenta per lei?
«La prima volta andai a visitare Roma e San Pietro con un amico, con un biglietto InterRail. Avevo sedici anni. Poi, all’incirca una ventina di anni fa, Benedetto XVI invitò duecento artisti da tutto il mondo, per un incontro nella Cappella Sistina. C’erano atei, cristiani, buddisti, da tutto il mondo. E c’ero anche io. Quell’invito mi sembrò sottendere un messaggio molto saggio: anche se gli artisti non hanno bisogno della Chiesa, la Chiesa ha bisogno degli artisti. La letteratura e le altre arti mantengono il livello spirituale della società, necessario per credere veramente».
Il suo stile non è molto facile. Nei sette volumi di “Settologia” utilizza un infinito flusso di coscienza. È un modo di selezionare i lettori?
«Assolutamente no. Non penso ai miei lettori. Da quando scrivo drammi destinati a spettatori, non ci penso affatto. Semplicemente, mi metto in ascolto. E ho l’impressione che quello che sento non sia dentro di me, venga dal di fuori».
Come se un’entità spirituale le parlasse?
«Sì, in relazione a qualcosa d’altro. E a un certo punto ho la netta sensazione che quello che sto annotando sia già scritto da qualche parte, là fuori. E mi devo affrettare a scriverlo, prima che scompaia».
Un’esperienza quasi mistica.
«Sono queste esperienze con la scrittura che hanno fatto di me un credente. Da giovane ero marxista e ateo, come molti a quei tempi. Ma non riuscivo a capire cosa succedeva, quando scrivevo in quel modo. Io comincio a scrivere, mi metto in ascolto, e devo restare sorpreso del risultato. Devo trovare qualcosa di nuovo, imparare qualcosa dalla scrittura, perché abbia valore per me».
In uno degli ultimi suoi libri pubblicati in italiano, “Un bagliore”, un uomo parte in auto senza meta, guidando a caso, e finisce in una specie di selva oscura. Un omaggio a Dante?
«Sì, almeno all’inizio. Ma forse c’è anche di più. Ho studiato filosofia e letterature comparate, e Dante è stato molto importante per me. Da allora, continuo a rileggerlo, anche grazie a un’edizione bilingue italiano-inglese della Divina Commedia. È molto difficile, ma piano piano cerco di capirlo meglio».
Lei è stato definito dal comitato del Nobel lo scrittore che ha saputo «dare voce all’indicibile». Si ritrova in questa definizione?
«Sì, posso immaginare cosa intendano. Questa è stata un’ambizione, almeno dall’inizio del Romanticismo. L’idea che un poema, o comunque un testo letterario, debba riuscire a dire ciò che non è possibile comunicare a parole. Credo sia ancora quello che caratterizza la buona letteratura. Le nostre parole sono così limitate e riduttive. Le parole, come “amore”, “morte”, non sono quasi niente. Ma se sei un bravo scrittore, puoi imparare molto da questi limiti».
Il re di Norvegia Harald V le ha dato la possibilità di vivere nella residenza di Grotten, un edificio del XIX secolo ai margini nel Palazzo Reale, con una grotta sotto casa. È un buon posto per scrivere?
«Cerco di isolarmi il più possibile con le tende, e posso anche disattivare il campanello della porta. Ma non è il posto migliore per lavorare. Per fortuna abbiamo mantenuto un normale appartamento a Hainburg an der Donau, un paesino alle porte di Vienna. Lì si scrive benissimo. Ma ho anche altri posti in cui nascondermi, come una piccola baita in Norvegia. Un bagliore l’ho scritto ad Oslo. Ma i volumi di Settologia vengono dall’Austria».
Oggi lei riceverà la Lupa Capitolina dal sindaco Roberto Gualtieri, il più importante riconoscimento della città di Roma. Ma anche a Viterbo è appena diventato cittadino onorario.
«È stata una delle prime città europee a ospitare uno dei miei drammi. Il direttore di un festival, Gianmaria Cervo, aveva visto un mio spettacolo, forse a Berlino. Siamo rimasti in contatto per vent’anni. Pensi, oggi mi sto avvicinando a duemila produzioni teatrali. Ma non ho mai veramente desiderato di scrivere per il teatro. Una volta ho cominciato a farlo, quasi per caso. E tutto è iniziato».
In questo periodo sta lavorando a un nuovo libro?
«La scrittura è una specie di dono. Per questo bisogna prepararsi, non si può scrivere sempre».
Ma lei si sente più drammaturgo, romanziere o poeta?
«Di base, sono un poeta. La lingua è musica».