Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  marzo 23 Domenica calendario

Come grappoli d’uva nello spazio Si svelano i misteri delle galassie

Il James Webb Space Telescope (Jwst) continua a stupire gli astronomi con immagini che mostrano galassie primordiali sorprendentemente luminose e grandi, mettendo in discussione alcuni punti delle congetture esistenti sull’evoluzione del cosmo. Queste scoperte, situate a pochi istanti dal Big Bang, sono tra le più grandi sorprese della missione in atto.
Un team di ricerca guidato da Kevin Hainline utilizza il Jwst per studiare queste galassie “impossibili”, e, durante la conferenza al Kavli Institute for Theoretical Physics (Kitp) tenutasi recentemente a Santa Barbara, dove astrofisici da tutto il mondo si sono riuniti per discutere queste scoperte rivoluzionarie, Hainline ha detto: «Di fronte ai primi dati dicevamo: “Non può essere così”. Eppure i dati erano certi».
Forme particolari
Le immagini catturate dal Jwst mostrano galassie con forme strane, alcune simili a grappoli d’uva, altre a banane, e persino «piccoli puntini rossi» la cui natura rimane ancora un mistero. Susanna Kassine, astronoma dello Space Telescope Science Institute, ha mostrato un confronto tra le immagini di osservatori precedenti e quelle del Jwst, paragonando la differenza a quella di una lente che mette a fuoco le ultime righe di un tabellone oculistico. Il Jwst, con i suoi sensori a infrarossi e la sua posizione nello spazio, è in grado di osservare il giovane cosmo con un dettaglio senza precedenti, rivelando oggetti troppo deboli e con lunghezze d’onda non visibili ai telescopi precedenti come Hubble. «I risultati di queste osservazioni hanno portato a una vera e propria “caccia alle idee” tra gli astronomi su quel che si osserva», ha affermato Caitlin Casey dell’università del Texas, Austin.
Fabio Pacucci dell’università di Harvard descrive la «tensione esistente tra teorie e osservazioni», mostrando una diapositiva ironica di un cane che sorseggia caffè mentre la casa del padrone è in fiamme, con la didascalia «È tutto ok!», per esprimere la confusione di fronte alle nuove scoperte.
Ma, venendo ai dati, va detto che tra le galassie più importanti osservate c’è JADES-GS-z14-0, la più antica conosciuta, scoperta dal team di Hainline. Questa galassia esisteva solo 300 milioni di anni dopo il Big Bang, e, stando a quanto si conosce, era un lasso di tempo troppo breve perché si potesse formare. Analizzando a fondo i dati, gli astrofisici stanno considerando tre congetture principali per spiegare la rapida evoluzione di queste galassie.
La prima vuole che le stelle nell’universo primordiale potrebbero essere state diverse da quelle odierne, ultraluminose ma non molto massicce. La seconda ipotizza che le galassie potrebbero aver subito intense esplosioni di formazione stellare, con variazioni di luminosità significative nel tempo. La terza vuole che la formazione stellare potrebbe essere stata molto più efficiente nell’universo primordiale, con una conversione quasi totale del gas in stelle.
Oltre alle problematiche legate alle stelle, vi sono anche problemi di interpretazione legati ai buchi neri. Un esempio per tutti: la scoperta di un buco nero supermassiccio in una galassia a soli 470 milioni di anni dal Big Bang pone nuove sfide sulla loro formazione.
Priyamvada Natarajan dell’università di Yale suggerisce la teoria del «seme pesante», secondo cui i buchi neri si sarebbero formati direttamente dal collasso di enormi nubi di gas senza passare dalla formazione delle stelle.
Un’altra scoperta sorprendente, poi, sono i «piccoli puntini rossi», ossia piccole galassie rosse che brillano circa 600 milioni di anni dopo il Big Bang e scomparse in seguito. Dale Kocevski del Colby College spiega che il gas in questi oggetti ruota a velocità incredibili, suggerendo la presenza di buchi neri supermassicci. Erica Nelson dell’università del Colorado, Boulder, propone un’alternativa, ipotizzando che la velocità sia dovuta alla compattezza delle galassie. Seiji Fujimoto dell’università del Texas, Austin, ha mostrato che alcune galassie luminose sono in realtà ammassi di stelle, simili a grappoli d’uva. Questa scoperta solleva interrogativi sulla formazione delle galassie e sul perché le simulazioni non riproducano tali strutture. Viraj Pandia della Columbia University ha scoperto che anche le piccole galassie primordiali hanno forme strane, allungate come sigari o cetrioli, senza equivalenti nell’universo odierno. Questo elenco di sorprese dimostra cosa sta facendo il Webb Telescope e come potrebbe rivoluzionare quel che pensavamo sull’origine delle stelle, delle galassie e dell’evoluzione del nostro universo in genere.
Rivoluzione sotto il mar Baltico
Mentre spesso le innovazioni tecnologiche più evidenti catturano la nostra attenzione, alcune delle trasformazioni più significative avvengono sott’acqua. È il caso del tunnel del Fehmarnbelt, un colossale progetto ingegneristico che promette di rivoluzionare la connettività europea e di ridefinire i confini dell’edilizia moderna. Questo tunnel, che attraverserà lo stretto del Fehmarnbelt tra Germania e Danimarca, non è solo un’opera ingegneristica, ma un simbolo di progresso, collaborazione e sostenibilità. Previsto per il completamento nel 2029, il tunnel del Fehmarnbelt sostituirà l’attuale sistema di traghetti, riducendo drasticamente i tempi di percorrenza e incrementando il commercio tra i due paesi.
Ma ciò che rende questo progetto davvero eccezionale sono le innovative tecniche di costruzione, l’attenzione all’ambiente e l’impatto che avrà su viaggi, commercio e cooperazione regionale. Il tunnel collegherà Puttgarden, sull’isola tedesca di Fehmarn, a Rødby, sull’isola danese di Lolland, estendendosi per circa 18 chilometri sotto il mar Baltico, a una profondità di 40 metri. Una volta operativo, diventerà il tunnel immerso più lungo del mondo.
Attualmente, il tragitto in traghetto tra le due sponde dura 45 minuti. Il tunnel ridurrà questo tempo a soli sette minuti in treno e dieci minuti in auto, una riduzione che rivoluzionerà i trasporti, rendendoli più veloci, efficienti e sostenibili. La particolarità di questo progetto risiede nell’utilizzo di sezioni di tunnel prefabbricate. Invece delle tradizionali frese meccaniche (Tbm), il tunnel viene costruito con 89 enormi segmenti prefabbricati, ciascuno del peso di 73.500 tonnellate e lungo 217 metri.
Queste sezioni vengono costruite a terra e poi calate in posizione sott’acqua con una precisione millimetrica. Ogni sezione è prefabbricata a terra, garantendo qualità e riducendo i tempi di costruzione. Dotate di paratie stagne per prevenire infiltrazioni durante l’immersione, una volta posizionate, le sezioni vengono unite per formare un tunnel continuo e impermeabile.
Il mar Baltico è un ecosistema delicato, e gli ingegneri hanno prestato grande attenzione a minimizzare l’impatto ambientale, adottando misure come la riduzione del rumore durante la costruzione e il posizionamento attento delle sezioni per non disturbare la vita marina. Il progetto incorpora anche pratiche sostenibili, come sistemi di illuminazione e ventilazione a basso consumo energetico.
Il cratere più antico
Un team di ricercatori ha annunciato una scoperta rivoluzionaria: il più antico cratere da impatto di un asteroide mai identificato sulla Terra. Situato nel cuore della regione di Pilbara, nell’Australia occidentale, questo cratere risale a oltre 3,5 miliardi di anni fa, superando di oltre un miliardo di anni il precedente detentore del record.
La scoperta, pubblicata sulla prestigiosa rivista Nature Communications, non solo riscrive la storia degli impatti meteorici sul nostro pianeta, ma fornisce anche un solido supporto a una teoria innovativa sulla formazione dei primi continenti terrestri. La ricerca, iniziata nel maggio 2021 con una spedizione sul campo di due settimane nel Pilbara, è stata condotta in collaborazione con il Geological Survey of Western Australia (Gswa). L’obiettivo iniziale del team era lo studio dell’Antarctic Creek Member, uno strato roccioso di circa 20 metri di spessore, noto per la presenza di sferule, piccole gocce di roccia fusa proiettate durante impatti meteorici.
Tuttavia, il destino ha voluto che, durante il primo giorno di ricerca, il team si imbattesse casualmente in coni di frantumazione, strutture geologiche uniche che si formano esclusivamente in seguito all’impatto di meteoriti. Questa scoperta inaspettata ha immediatamente suggerito la presenza di un antico cratere da impatto.
Ulteriori analisi di laboratorio e una seconda spedizione nel maggio 2024 hanno confermato l’età del cratere, stimata in 3,5 miliardi di anni, la stessa delle rocce dell’Antarctic Creek Member. Questa datazione ha stabilito un nuovo record per il cratere da impatto più antico conosciuto sulla Terra. Ma le implicazioni della scoperta vanno ben oltre il semplice record. La scoperta supporta la teoria secondo cui l’energia necessaria per la formazione dei continenti nel Pilbara proveniva da impatti meteorici di grandi dimensioni.
Questi impatti avrebbero generato enormi volumi di materiale fuso, che si sarebbero poi evoluti in crosta continentale. L’impatto che ha creato il cratere di Pilbara deve essere stato un evento catastrofico, con un asteroide di dimensioni considerevoli che ha colpito la Terra primordiale con una forza inimmaginabile. L’energia rilasciata da un tale impatto avrebbe fuso enormi quantità di roccia, creando un oceano di magma che si sarebbe poi raffreddato e solidificato, formando la crosta continentale. Questo processo, noto come “formazione della crosta continentale da impatto”, è stato a lungo dibattuto, ma la scoperta del cratere di Pilbara fornisce una prova concreta a sostegno di questa teoria. La scoperta del cratere di Pilbara apre nuove prospettive sulla comprensione della Terra primordiale e del ruolo degli impatti meteorici nella formazione dei continenti e, potenzialmente, nell’origine della vita stessa.
I ricercatori auspicano che questa scoperta possa stimolare ulteriori indagini sui nuclei antichi di altri continenti, alla ricerca di altri crateri inesplorati. La speranza è che, attraverso queste future ricerche, si possa acquisire una comprensione più completa della storia della Terra e dei processi che hanno plasmato il nostro pianeta.