Domani, 23 marzo 2025
Tilli e la nuova atletica italiana «La staffetta d’oro? Va ricostruita»
Il grande amore per l’atletica come stile di vita e di lavoro. Dapprima cercando di correre più veloce di tutti, e successivamente insegnandola, studiandola, programmandola. Stefano Tilli ha anche il dono di saperla spiegare in modo coinvolgente ai telespettatori, che lo identificano nel ruolo di commentatore, da quasi 20 anni è la voce tecnica della Rai.Davanti al microfono non ha paura di rischiare. Nella finale dei 100 metri di Tokyo 2021 è l’unico che in diretta tv ai 50 metri già inizia a urlare: «Jacobs vinceeee!». Una telecronaca che gli è valsa il Premio Paolo Rosi. «Non era il favorito, era entrato in finale come ripescato, passavano i primi due delle tre semifinali e i due migliori tempi. Il cinese Su Bingtian era partito stranamente male, ed è allora che ho seguito il mio istinto azzardando in anticipo l’oro di Marcell».
Non era favorito nemmeno Tilli quando ha fatto irruzione tra i grandi della velocità nel 1983, da sconosciuto sbarbatello ventenne vince l’oro agli Europei Indoor di Budapest nei 60 metri in 6"63. Cinque mesi dopo è uno dei quattro moschettieri dell’argento memorabile dei Mondiali di Helsinki, dietro solo agli Usa di sua maestà Carl Lewis. Prima del trionfo di Tokyo era considerata questa la 4x100 più famosa dell’atletica azzurra. Una formazione come filastrocca: Tilli, Simionato, Pavoni, Mennea.
«Pietro era già campione olimpico di Mosca e recordman nei 200. Gli Stati Uniti fanno il primato del mondo, e noi in 38"37 stabiliamo un record italiano che è durato 27 anni, fino al 2010. Lo sa che ancora mi fermano per strada citandomi quell’argento?»
L’anno dopo ai Giochi di Los Angeles un quarto posto che ancora brucia.
Io in terza frazione cambio con Mennea in quarta. Arriviamo dietro al Canada di Ben Johnson e di atleti che in tribunale, sotto giuramento, hanno poi confessato di essersi dopati fin dal 1983. Quel bronzo avrebbe dovuto essere riassegnato, come del resto accade adesso. Resta un mio grande rammarico, la medaglia olimpica che non ho mai vinto.
Di successi ne conquista altri, compreso il record mondiale indoor nei 200 metri a Torino nel 1985 (20"52), tolto al grande Mennea con cui per anni ha condiviso la stanza nei ritiri. Come facevano ad andare così d’accordo il riservato, spigoloso Pietro con il guascone, estroverso Stefano?
Lui aveva dieci anni di più. Riusciva a cazziarmi ma pure a spronarmi. Pietro è stato il mio influencer, in un periodo in cui non c’erano i post sui social, ma contava l’esempio. Un esempio di determinazione, di volontà, di sacrificio, di rinunce. Poi, sono sincero, un esempio che ho seguito fino a un certo punto, perché lui era maniacale, noi abbiamo sacrificato le nostre vite molto meno di lui.
Con Mennea vi frequentavate anche nella vita di tutti i giorni.
Con la mia romanità e le mie battute lo facevo sorridere. Quando io ero a fine carriera mi chiamava per sfottermi: oh, ma ti alleni ancora? Lui c’è sempre stato per me, anche dopo. Un giorno lo chiamo per chiedergli un parere legale, lui mi ascolta e mi dà subito la risposta. Passano 40 minuti e mi richiama: Stefano, ho approfondito meglio l’argomento. Diceva a sua moglie Manuela che io ero una sorta di fratello minore. Lo porto nel cuore.
Il lato sentimentale di un Tilli che appare molto sicuro, fin troppo schietto. Commentando le gare degli azzurri alterna carezze d’affetto a considerazioni tecniche senza peli sulla lingua.
Io porto la mia sincerità e la mia esperienza, che è il frutto di 45 anni vissuti in questo mondo, prima da atleta quando ho imparato da grandi maestri, poi ho ottenuto tutti i diplomi tecnici possibili, ho allenato da Marlene Ottey alle staffette della Giamaica, e quelle della Nigeria. Dico la verità, mi dispiace se una mia considerazione viene presa come una critica quando in verità si tratta di un consiglio. Della serie, io ti dico la mia, se vuoi prenderlo come spunto istruttivo poi i vantaggi ce li hai tu, sia sportivi sia economici, mica io.
Nel suo archivio ci sono tante cartelle con relazioni tecniche scritte e protocollate. Riprendendole in mano, le capita di dire: ci avevo visto giusto?
Non in questi termini perché non sono presuntuoso. Penso solo che tante mie considerazioni si siano poi avverate. Ripeto, non c’è niente di improvvisato, alla base c’è molta conoscenza e tanto studio, che non finisce mai perché alcune tecniche si evolvono, bisogna essere al passo con i tempi
Dallo scorso dicembre è nei quadri della Federazione, nominato consulente del direttore tecnico Antonio La Torre.
Sembra una novità, ma in realtà è da tre anni che collaboro con la Fidal. All’inizio sono stato impegnato in un monitoraggio su alcuni settori e atleti prevalentemente della velocità, allargando la supervisione agli ostacoli e al mezzofondo. L’anno scorso ho seguito il progetto Pista, che è l’acronimo di “Piano sviluppo talento”. Sono stati fatti grandi investimenti dal punto di vista finanziario per far crescere il movimento, dalla didattica alle apparecchiature. Faccio un esempio, abbiamo valutato l’acquisto di apparecchiature elettroniche, quelle che misurano la velocità istantanea, l’accelerazione, i tempi di contatto a terra, la quantità di spinta espressa in watt. Le abbiamo distribuite nelle varie regioni a disposizione di cento tecnici. Nulla viene lasciato al caso. Tanti sforzi che poi vengono premiati, andate a vedere che razza di risultati stanno facendo i giovani. Abbiamo una pattuglia Under 20 molto competitiva.
L’incarico attuale com’è strutturato?
È un ruolo più articolato. Tocco con mano il territorio, mi sposto da una parte all’altra dell’Italia per vedere i ragazzi più interessanti, valutare se hanno bisogno di un aiuto immediato, se c’è una criticità da risolvere, e ovviamente riporto tutto. Come consulente e referente, diciamo che sono una sorta di angolo retto tra il presidente Stefano Mei e il dt La Torre
A proposito di criticità, l’inchiesta delle intercettazioni che coinvolge il fratello di Tortu. Jacobs si dice convinto dell’estraneità di Filippo. Qual è il futuro della 4x100 maschile?
C’è una difficoltà tecnica, va ricostruita come squadra vincente. Magari partendo dal binomio Patta, che si dedica interamente a questa specialità, e Jacobs. Ho detto più volte che sarebbe il caso di provarlo in ultima frazione. In ambito sportivo, ciò che conta è che Marcell e Filippo si stimino a vicenda. Conoscendo Filippo, mi sento di dire che davvero lui non fosse a conoscenza di nulla. Per il resto, se ne occuperà la magistratura.
Cambio totalmente argomento. La storia con Merlene Ottey, fidanzato e allenatore di un’atleta fortissima e bellissima. L’attenzione mediatica la infastidiva?
C’era un’intesa perfetta, sia sentimentale sia sportiva. Il problema non era certo il gossip, dovevamo stare attenti a ben altro. Nei primi anni Novanta, l’uccisione di Rodney King a Los Angeles aveva fatto scoppiare sommosse a sfondo razziale in tutta l’America. Noi, in quanto coppia mista, eravamo visti come nemici. A Miami abbiamo davvero avuto paura in un centro commerciale, una gang di ragazzi ha iniziato a inveire contro di lei perché stava con un bianco. In Sudafrica, nel periodo dell’apartheid, venivamo insultati, chi ce l’aveva con me e chi con lei. Diverso il discorso per chi mancava di rispetto a lei, il tizio che in quell’albergo di Cortina le aveva toccato il sedere ancora si ricorda la mia reazione. Maradona invece aveva un rispetto enorme di Merlene, era ammirato dalle sue qualità atletiche, nei giorni in cui ci siamo allenati insieme.
Maradona in allenamento con voi? Quando?
Poco prima dei Mondiali Italia 90. Diego era amico del professor Antonio Dal Monte (uno dei fondatori dell’Istituto di medicina e scienza dello sport, ndr ) che ci aveva riunito per sostenere dei test allo stadio Paolo Rosi, cicli completi per diminuire la viscosità muscolare e rendere i muscoli più agili. Giorni di grande sforzo fisico ma di enorme armonia, anche mangiando insieme in mensa. Con Maradona parlavamo la stessa lingua dello sport. Le risate, quando faceva salire Dal Monte sulla sua Ferrari F40, a gran velocità lungo i viali del Centro dell’Acqua Acetosa. Lo terrorizzava.