La Verità, 23 marzo 2025
Goffredo Bettini, l’uomo ombra che fa troppa ombra al Pd
Cultura, intrallazzo, feste e tifo per la Roma: dietro ogni sommovimento in casa dem, c’è il suo zampino. Gli inizi da dalemiano, la folgorazione per Veltroni, un rapporto ambivalente con Zingaretti e l’odio reciproco con Calenda. Intanto comanda sempre lui. Cognome e nome: Bettini Goffredo. L’uomo che sussurra ai ronzini (del Pd). Il monaco della sinistra, per lo stile di vita certosino: «A Roma possiedo un appartamento di 70 metri quadri, gravato da un mutuo di 300.000 euro», così a Repubblica il 23 gennaio 2008. Discendente della nobile schiatta marchigiana dei Rocchi Bettini Camerata (camerata?!?) Passionei Mazzoleni. King maker di primi cittadini della capitale, dove è nato nel 1952.
Pare che nel 1983 lo proposero a lui, di correre per il Campidoglio, «grazie, ma non me la sento». Preferendo rimanere dietro le quinte. L’«uomo ombra» che fa ombra.
Anche se lui in tv, nel gennaio 2021 ospite su Rete4 dell’amica Barbara Palombelli, ha ironizzato: «Chiedo di non essere chiamato più così. È da quando ho 14 anni che milito nella sinistra, e anche per la mia stazza non potrei stare dietro nessuno» (è arrivato a pesare 180 chili).
Quattro punti fermi: la cultura tendenza «grande schermo». E difatti, dopo la presidenza dell’Auditorium, «una scelta del sindaco Francesco Rutelli perché il cantiere dell’opera di Renzo Piano era disperatamente fermo», è arrivata quella, per un biennio, della Festa del Cinema di Roma, sindaco Walter Veltroni. Da lui spinto a correre per le prime primarie del Pd nel 2007: «Walter, non abbiamo due treni, ne abbiamo solo uno, e passa ora».
Al secondo posto: la politica, come arabesco da tessere con pazienza.
Quindi la Roma, «da 65 anni sono giallorosso» ha scritto nella sua rubrica sull’Espresso l’anno scorso, con la passione del «puparo» – che mai fu «pupo» – per il «pupone» Francesco Totti. «La Roma è stata sempre un po’ come la città di cui porta il nome. La più bella e prestigiosa, ma troppo spesso nella modernità poco funzionante», ha aggiunto.
Con un involontario assist a chi ritiene la sinistra comunque intesa o incapace di affrontare il degrado della capitale o causa del medesimo, visto che negli ultimi 50 ha governato per 35, con otto sindaci (facendo sorgere il sospetto che i romani, più che cinici, siano masochisti).
Infine, last but not least, la Thailandia. Che non è solo un’espressione geografica. Bettini. Il bonzo del «campo largo», forse, o magari no, chissà, vai a sapere, ché chi ci capisce qualcosa tra riposizionamenti e giri di valzer di capi, capetti, cacicchi, in quel manicomio del Nazareno, non è bravo: deve farsi vedere da uno bravo, piuttosto. Ai tempi, «braccio destro del veltronismo», per Marco Damilano, ne Lost in Pd, 2009. Sì, però «prima era stato dalemiano». ha inzigato Giuseppe Salvaggiulo in Flop -Breve ma veridica storia del Pd, 2009.
E comunque Uòlter «è l’unico che si occupa della mia salute. Ogni volta che siamo in riunione e io mi avvento sul tramezzino e sul pasticcino, solo l’autorità del segretario mi impedisce di mangiarlo. Gli altri, che probabilmente mi vogliono eliminare politicamente, usano la gola per farmi scoppiare!», ha scherzato lui, più paraguru che guru, con il Foglio il 18 aprile 2008.
E se Veltroni ha girato nel 2014 il documentario Quando c’era Berlinguer, Bettini può rivendicare di averlo fatto prendere in braccio da Roberto Benigni, nel celebre comizio al Pincio, nel 1983.
Con Tonino Tatò, l’alter ego del leader rosso, «che da dietro il palco ci tranquillizzava: va benissimo, ragazzi!», si è commosso Bettini sempre con Palombelli, questa volta per il Corriere della Sera del 15 marzo 2006.
E chissà come avrebbe reagito l’Enrico Berlinguer dell’«austerità» e della «diversità» vagheggiata nella storica intervista – molto citata e poco letta, un po’ come il Manifesto di Ventotene – concessa a Eugenio Scalfari dopo il terremoto dell’Irpinia, 1980, davanti all’happening che Bettini, capolista al Senato alle politiche 2006, organizzò per raccogliere fondi.
«La cena più affollata dai tempi di Nerone», Bettini «il nuovo imperatore romano, l’unico in grado di mobilitare tante persone diverse (quasi 4.000, tra cui Cesare Romiti, Francesco Caltagirone, Elia Valori, Giovanni Malagò, Maurizio Costanzo, Aurelio De Laurentiis, l’immancabile Gianni Letta, e via svippando, ndr), di cui è diventato il punto di riferimento comune».
Perché «a Roma si deve dialogare con tutti», ipse dixit, certo.
Ultimamente, non potendo più dare il cattivo esempio («Ho preferito parlare poco, cercare il disincanto, praticare la distanza»: l’ha scritto dall’eremo di Camaldoli? No: l’ha detto nell’ennesima intervista, questa volta al Foglio il 27 febbraio scorso), continua a dispensare buoni consigli.
Serve «una carta dei valori (n’artra?, si chiederebbero a Testaccio, ndr) delle opposizioni, da firmare ad Assisi», dove sennò?, dato che ci vuole una tolleranza francescana per far scoppiare la pace nel centrosinistra.
E comunque: «Bene Elly Schlein: l’Europa è nata per garantire la pace non il riarmo per la guerra» (all’Unità, tre giorni fa).
Talvolta i suggerimenti suonano come un richiamo al «centralismo democratico». Come quello a Nicola Zingaretti, ex segretario Pd, in vista delle ultime europee: «Se il gruppo dirigente nazionale gli propone di candidarsi, egli ha il diritto e perfino il dovere di farlo» (così il sito Affaritaliani, nel riportare il 9 aprile 2024 il suo monito da apparatčik).
Con Zingaretti i rapporti sono ondivaghi: «Per 40 anni e più, come un fratello maggiore, l’ho sostenuto in tutti gli incarichi importantissimi che ha svolto. Parlare di mia ostilità nei suoi confronti è davvero ingiusto». Come quelli con Roberto Gualtieri.
Festa di compleanno di Bettini al tempo del governo di Mario Draghi. I presenti – un bel gruppone, tra cui ministri, maggiorenti Pd, ovviamente Letta, Giuseppe Conte, perfino l’ad Rai Carlo Fuortes – irridono il sindaco: «Carlo Calenda ha detto che la giunta di Roberto è targata Bettini», così il Domani del 6 novembre 2021.
Con Calenda, Bettini non «si prende»: «Carlo è incompatibile con tutti quelli che non sono lui» ha sentenziato. E Calenda: «No, solo con il tuo modo di fare politica, gestione spregiudicata del potere e del sottobosco politico, incartata di retorica, a fini di preservazione», tiè.
Il sindaco, dal canto suo, forse non ha gradito essere perculato, visto che un mese dopo, il 4 dicembre, il Foglio titola: «Roma, guerra Pd per le nomine nelle partecipate. Gualtieri: “Decido io, non Bettini”. E lui: “Finirai come Ignazio Marino”», annamo bene. Bettini ha vissuto con travaglio l’evoluzione del Pci in Pds ad opera di Achille Occhetto. Somatizzandolo e andando in tilt.
Si curò in Thailandia, in cui era stato per la prima volta con il padre negli anni Ottanta, «guardando il mare del Siam, e da allora ho un debito di riconoscenza con quel Paese». Il re l’ha investito del titolo di «Cavaliere comandante del nobilissimo ordine del regno di Thailandia», mica cotica.
Thailandia. Evocata nei suoi discorsi, ma pure in quelli degli amici. Come il capo del MSS Conte, che invitato nel novembre 2022 a presentare il libro di Bettini A sinistra. Da capo (un sottile gioco di parole, a ben guardare), sul palco dell’Auditorium si è rivolto all’autore alla maniera di Claudio Latito: «Si vede che mentre eri lì in Thailandia, hai cercato di giungere all’essenziale, con un labor limae oraziano», nientemeno.
Non sono mancate battute sgradevolmente ammiccanti alle sue spalle.
L’interessato ne è consapevole: «I pensieri pruriginosi dicono molto delle persone che li fanno, niente delle persone a cui si riferiscono. La verità è che dopo la depressione non sono più riuscito ad avere legami sentimentali. Ho sentito, però, un forte desiderio di figli. Che, in parte, ho soddisfatto adottando sei famiglie thailandesi» (a Nicola Mirenzi per Repubblica nel 2021).
E intestando loro la grande casa lì acquistata, nell’isola di Koh Samui, «il cui valore può essere paragonato a tre stanze al Circeo», sottolineò nella lettera a Repubblica citata in apertura.
Si ritirerà in quel lontano paradiso dell’Estremo Oriente? È possibile. Sul quando, buio fitto. Se fa come Veltroni con l’Africa, campa cavallo.
Ha un solo rammarico: «Perché il Pd non si è mai filato Ultimo?», si è chiesto nel 2023.
Ma chi, il Capitano che catturò Totò Riina? Macché: Ultimo il cantante. «Non regaliamo i ragazzi di borgata alla destra. Noi della Fgci andavamo a cercare Antonello Venditti, Francesco De Gregari, Luca Barbarossa, li coinvolgevamo».
Replica di Ultimo?
All’insegna del «come se avessi accettato, ma anche no»: «Bettini non deve avere rimpianti. Se un partito, uno qualunque, mi avesse cercato, non mi sarei fatto trovare». Che all’orecchio di un romano verace come Bettini sarà suonato come la risposta diventata virale a chi si raccomandava «telefonare ore pasti»: A Goffre: magna tranquillo.
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