la Repubblica, 24 marzo 2025
“Noi in cella con Trentini tra torture e privazioni”
Febbraio, carcere El Rodeo 1, Venezuela. Alberto Trentini è vivo. È in una cella di due metri per due, dalla quale può uscire pochi minuti al giorno. Lo guardano secondini con nomi in codice che raccontano tutto: Hitler, Diavolo, Squalo, agenti pronti a sedare con la violenza ogni tentativo di protesta. Alberto ha le medicine per le sua malattia ma si trova in condizioni di “tortura psicologica”, insieme ad almeno una settantina di altri detenuti, nel braccio per “stranieri” del carcere di El Rodeo 1. Sono tutti detenuti senza reali motivi, dei veri e propri ostaggi, catturati nell’ultimo anno dal governo Maduro con accuse fittizie per poi essere utilizzati come arma di scambio politico sui tavoli internazionali.
Arrivano dagli Usa le ultime notizie su Trentini, cooperante italiano arrestato in Venezuela il 15 novembre scorso, mentre portava aiuti umanitari alla popolazione locale. Un mese fa, grazie all’intercessione del governo Trump, sono stati liberati alcuni cittadini americani che erano nello stesso carcere e nelle stesse condizioni di Trentini. E hanno raccontato ai servizi di sicurezza prima, e poi anche al New York Times, una serie di particolari sui mesi passati nella prigione venezuelana. Collocando a più di un mese fa le sole notizie sul nostro connazionale.
«Le guardie si chiamavano tra loro con nomi in codice, alcuni avevano anche delle targhette sulla divisa», hanno detto gli americani. C’era Hitler, il Diavolo, Lo Squalo. Una volta fermati sono stati tutti denudati e tenuti per quattro, cinque giorni con le manette ai polsi «che ci laceravano la pelle» davanti agli uomini dello spionaggio di Maduro. «Dopo siamo stati portati in celle» grandi sei metri quadrati, con porte in ferro. «Si sentivano le grida degli altri detenuti, soprattutto venezuelani, a cui spesso non davano da mangiare». Quando qualcuno provava a protestare, le rivolte venivano risolte con la violenza: botte e spray al peperoncino negli occhi. «Eravamo sottoposti a ripetute torture psicologiche», hanno detto, raccontando di lunghissimi interrogatori per cercare informazioni che non c’erano. «Perché nessuno di noi aveva commesso reati, la nostra unica colpa era di essere stranieri».
Secondo un gruppo di controllo venezuelano nel carcere di El Rodeo 1 ci sono 68 stranieri tra spagnoli, tedeschi, argentini, colombiani e uruguaiani. E poi c’è Alberto che un americano liberato ha raccontato di aver visto: era in condizioni discrete e gli venivano date le medicine di cui ha bisogno. L’Italia ormai due mesi fa ha avuto dal Venezuela una prova tangibile del fatto che il cooperante italiano fosse vivo e in buona salute. Da allora nulla. Nonostante le promesse, però, a Trentini non è mai stato concesso di chiamare casa. Né di incontrare i nostri diplomatici. All’Italia non sono mai state comunicate le accuse. Ma tramite i canali di intelligence abbiamo saputo che gli viene contestata la “cospirazione”, nell’ambito di un’inchiesta che sarebbe già sul tavolo del tribunale speciale che si occupa di terrorismo. «Un’accusa ridicola, priva di qualsiasi appiglio», spiegano fonti italiane che stanno seguendo il dossier che, come hanno spiegato sia il ministro degli Esteri Antonio Tajani sia il sottosegretario Alfredo Mantovano, è particolarmente «difficile». Tajani ha parlato del caso durante il G7 in Canada, ricevendo un buon feedback dal segretario di stato Usa, Marco Rubio, che ha seguito il caso dei detenuti statunitensi poi liberati. In Italia continua la mobilitazione chiesta a gran voce dalla famiglia Trentini, con l’avvocato Alessandra Ballerini. Procede il digiuno a staffetta, sono più di 90 mila le firme raccolte in una petizione su change.org. Mentre mamma Armanda, che aveva scritto una lunga lettera a Repubblica, aspetta di incontrare la premier Giorgia Meloni.