Corriere della Sera, 23 marzo 2025
Intervista a Claudio Magris
Il mito asburgico o il mito absburgico?
«Su questo non sono disposto a trattare. Absburgico. Con la b».
Lei, Claudio Magris, scrisse «Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna» a 23 anni, e nel mondo delle lettere si gridò al miracolo. A 23 anni il suo conterraneo Carlo Michelstaedter scrisse «La persuasione e la rettorica», e si suicidò. Perché?
«Per l’impossibilità di essere persuaso. Si era reso conto che la cosa che più vale al mondo, la persuasione, non esiste. Tutto gli appariva retorica; e non voleva essere pure lui un retore. Ma forse la ragione è un’altra».
Quale?
«Michelstaedter era un genio. Io no».
Chi è la persona più intelligente che ha mai conosciuto?
«Difficile dirlo. Un genio non è necessariamente una persona molto intelligente. Prendiamo Elias Canetti. Un genio, senza dubbio. Ma si offese a morte perché sul Corriere scrissi un articolo sul viaggio che aveva intenzione di fare in Italia. Non aveva ancora vinto il Nobel, non era così conosciuto. Ma temeva per la sua privacy, e mi scrisse una letteraccia».
Lei il Nobel non l’ha mai vinto. Le pesa?
«Ma no! Non ho mai avuto serie possibilità di vincere il Nobel. Se n’era parlato, qualche anno fa...».
Ritrovare nel caffè San Marco di Trieste, a pochi giorni dal suo ottantaseiesimo compleanno, Claudio Magris, il suo sorriso dolce e nervoso, i suoi occhi acquosi che in questo pomeriggio per due volte si riempiranno di lacrime, restituisce la sensazione che i libri, le arti, l’umanesimo non siano ancora scomparsi dal mondo.
Professore, neppure Borges ha mai vinto il Nobel. Lei l’ha conosciuto bene.
«Sì. Non era così cieco come voleva si credesse, forse ci giocava un poco... A pranzo a Venezia gli raccontai la storia dei cosacchi di Krasnov, perché mi sembrava degna della sua penna».
Perché Borges sì e i lettori del Corriere no? Racconti anche a noi la storia dei cosacchi di Krasnov.
«Piotr Nikolaevic Krasnov era stato eletto atamano dei cosacchi del Don nel maggio 1918, al posto di Anatolij Nazarov, fucilato dai rivoluzionari bolscevichi come nemico del popolo. Anche Krasnov fu giustiziato da Stalin dopo la seconda guerra mondiale. Ma secondo la leggenda era caduto in combattimento, in Friuli».
Lei vide i cosacchi in Friuli?
«Sì. È una storia di famiglia. Avevo cinque anni».
Da dove viene la sua famiglia?
«Nonno Sebastiano era di origine veneziana e abitava a Malnisio, in Friuli, che all’epoca era impero austroungarico».
Dica pure absburgico.
«Impero absburgico. Il nonno si trasferì a Trieste perché non desiderava diventare italiano. Ma due suoi figli, i miei zii, andarono a combattere dalla parte degli italiani, contro gli austriaci. Uno di loro cadde sul Carso. Mio padre Duilio si ricordava di quando a casa arrivò la notizia».
Qual è invece il suo primo ricordo?
«Mia nonna Adele. Morì che avevo pochi mesi, quindi sarebbe tecnicamente impossibile che io la ricordi. Però oltre alla nonna ricordo un armadio di colore scuro, aperto, e il suo contenuto, che descrissi a mia madre, Pia. Per cui sì, la nonna me la ricordo».
Suo padre fece la seconda guerra mondiale, come ufficiale.
«Dopo l’8 settembre riuscì a fuggire e a non farsi prendere prigioniero dai tedeschi, ma si ammalò di pleurite. Il medico sentenziò: se non gli estraggo l’acqua dai polmoni, muore. Io guardavo dal buco della serratura. Il medico frugava con un tubo il torace di mio padre. Lo sento ancora dire, con un sorriso debole: “Dottore faccia piano, lì vicino c’è il cuore”. E il dottore: “Lo so, grazie”».
Suo padre si salvò.
«Lo portarono in taxi in ospedale, a Udine. Ci trasferimmo anche noi, per stargli vicino. Ricordo questo ospedale grande e buio. E lì incontrammo i cosacchi. Formidabili bevitori, si ubriacavano tutte le sere, e la mamma si barricava in camera. La rivedo con un pullover verde che spinge un armadio contro la porta».
I cosacchi combattevano al fianco dei tedeschi.
«In odio a Mosca. Coltivavano il sogno dell’indipendenza. Avevano creato una corte in esilio a Parigi, che era ancora occupata dai nazisti, dove ricevevano dignitari internazionali. Verso la fine della guerra, sognavano ancora un’enclave cosacca in Carnia. Ma poi negli ultimi giorni la loro preoccupazione era arrendersi agli inglesi, anziché ai bolscevichi».
Ci riuscirono?
«Krasnov e i suoi uomini in effetti si arresero ai britannici; che però il giorno dopo li consegnarono ai russi. Molti si gettarono nella Drava per non finire vivi nelle mani dei loro mortali nemici. Ma nacque la leggenda che il capo dei cosacchi fosse caduto in battaglia. Così dedicai a lui uno dei miei primi pezzi sul Corriere della Sera».
Una storia stupenda.
«Rileggendo l’articolo, notai che era pieno di “sebbene”, “quantunque”, “benché”... Neppure io volevo rassegnarmi all’idea che Krasnov fosse stato fucilato da Stalin, anziché morire con le armi in pugno. Così ne parlai con Borges».
E lui?
«Allungò il braccio, trovò il mio, segno che appunto non era così cieco, e mi disse: “No, questa è la storia della sua vita, deve scriverla lei”. Così scrissi “Illazioni su una sciabola”».
Il dopoguerra a Trieste fu lungo e difficile.
«Dalla nostra casa di via del Ronco vedemmo scendere in città i titini, lungo via Fabio Severo. Rudi, sopravvissuti ad anni di occupazione, braccati dai nazisti nei boschi, facevano davvero paura. Fu Vittorio Vidali, il comandante Carlos della guerra di Spagna, a limitarne gli eccessi: tanti anni dopo ne avrei tenuto l’elogio funebre. Poi arrivarono gli americani, ne ricordo uno che mi lanciò una tavoletta di cioccolata che afferrai al volo. Ma quel ricordo è sicuramente falso».
Perché?
«Perché non ho mai afferrato una cosa al volo in vita mia, neanche una palla. Sono maldestro».
Dicevamo dell’occupazione titina.
«I quaranta giorni furono terribili, ma anche gli anni successivi, quando la città era in mano agli inglesi, furono molto violenti. Slavi contro italiani, fascisti contro antifascisti. Zio Ezio salvò un gruppo di boyscout in divisa, inseguiti dagli stalinisti».
Chi era zio Ezio?
«Un uomo di forza leggendaria. Sarebbe poi diventato comandante di transatlantici, sulla rotta per New York. Ma a diciotto anni si esibiva nelle fiere di paese come lottatore. Aveva 28 anni quando mi disse: “Il mio diciottenne avrebbe afferrato il mio ventottenne in un minuto”. Fu allora che capii la caducità umana. Ma il mago della mia infanzia era zio Nello: ingegnere, creava presepi semoventi, giochi di luci, alberi di Natale veri, e faceva entrare tutto dalla finestra. Era un gran donnaiolo, e...».
E...?
«Una ragazza cui era legato gli rivelò che aveva un bambino, tenuto a balia in Veneto. Zio Nello il giorno dopo andò a prenderlo e lo adottò come un figlio. Per me divenne un cugino più grande, mi faceva giocare. Lo zio era antifascista, era anche finito in prigione per aver rifiutato di indossare la camicia nera, ma suo figlio si unì alle brigate della Repubblica di Salò. Morì, vicino a Varese. Lo zio morì con lui. Visse ancora a lungo, ma senza il morbìn, come diciamo noi a Trieste: il vento, il soffio vitale. Però il vero personaggio letterario della famiglia era zia Esperia».
Com’era zia Esperia?
«Nevrastenica. Vittima di piccole manie, ad esempio vedeva file di insetti nei piatti. Un giorno in treno conobbe un ufficiale dell’esercito, e se ne innamorò perdutamente. Un amore epistolare: si scambiavano lettere, in cui d’amore non parlavano mai. Lui fu promosso generale, fece la guerra d’Africa, e quando tornava dalle missioni lei andava alla stazione di Milano ad attenderlo. Si cominciò a parlare di matrimonio: la famiglia vendette una casa in campagna per farle il corredo. Ma poi scoppiò la guerra mondiale. Il generale vennero a prenderlo di notte i partigiani, lo uccisero con una raffica di mitra, anche se non aveva alcuna colpa tranne essere un generale. Zia Esperia divenne vedova, senza essere mai stata moglie. E da vedova si comportò per tutta la vita. Si trasferì a Milano, in ricordo di quando andava ad aspettare il suo ufficiale in stazione. Viveva con un altro mio zio, Virgilio, che era viceprefetto».
Lei, professore, a scuola come andava?
«I primi due anni li ho fatti a casa, con mia mamma maestra. All’esame mi emozionai e confusi il Padre Nostro con l’Ave Maria, il che mi costò un sufficiente di religione. In italiano andavo meglio».
Poi fece il liceo Dante, quello degli irredentisti.
«C’era uno straordinario professore di tedesco, ebreo di Breslavia, che ci parlava appunto solo in tedesco. Quando sbagliavo mi diceva: “Che Dio ti perdoni, Claudio, perché io non posso farlo”. Oppure: “Per domani imparerete a memoria i primi cinquanta versi del Faust. So che è impossibile e ingiusto. Ma la vita è impossibile e ingiusta; e io vi preparerò ad affrontarla”. Avevamo un compagno fragile, uno che sudava, di quelli verso cui nessuno è privo di colpa. Un altro compagno, malvagio, gli prese la matita e la spezzò. Ricordo ancora il suo nome, ma non posso dirlo».
Chiamiamolo Franti.
«Il professore di tedesco chiese spiegazioni a Franti. Lui rispose: sono fatto così. E il professore, con nostro grande stupore: se sei fatto così, hai fatto bene. Poi prese tutte le matite e le penne di Franti, le spezzò in due, e gli disse: sono fatto così. Era il suo modo di dimostrare la teoria nietzschiana del superuomo, e la triste fine cui è destinato».
Per l’università lei andò a Torino.
«Il presidente della commissione di maturità era Giovanni Getto, il grande italianista. Mi persuase a fare l’università a Torino, dove divenni amico dei suoi allievi: Jacomuzzi, Guglielminetti, Giorgio Barberi Squarotti, Lorenzo Mondo, Gianluigi Beccaria».
I più importanti italianisti del dopoguerra. Beccaria divenne anche un personaggio televisivo.
«Uno degli amici della vita. Una volta in vacanza a Skopelos rischiammo il naufragio, riparammo su un isolotto dove passammo una notte di fortuna».
A Torino lei entrò al collegio universitario di via Galliari, dove viveva il giovane Umberto Eco.
«L’esame era molto temuto. Lo affrontai tenendo sotto il banco il ritratto di Mazzini, cui lanciavo ogni tanto un’occhiata, così, per provocare la reazione degli esaminatori. Abboccarono: “Lei cosa sta guardando?”. Estrassi il luguberrimo ritratto...».
La prego, dica ancora luguberrimo.
«Il volto che giammai non rise, come scrisse il poeta. Dissi: “So che è vietato, ma ne traggo conforto”. E loro: “Non faccia il buffone!”. Non mi sono mai sentito così libero come a scuola. Anche se era proibito non soltanto entrare, ma anche avvicinarsi a meno di cinque metri dai collegi femminili. Una volta alcuni goliardi introdussero nel collegio tre prostitute. Ci fu un processo. Vennero espulsi».
Umberto Eco com’era?
«Lo conobbi più tardi. Una volta ci incontrammo a Bucarest, penultima tappa del viaggio che feci per scrivere “Danubio”. Doveva andare all’istituto italiano di cultura, ma per via della pancia non riusciva a chiudere i pantaloni. Lo aiutai, me ne fu molto grato. A Francoforte ci innamorammo entrambi di un mobile e ce lo giocammo a testa e croce: vinsi io, e mi rimproverò per non aver avuto la gentilezza d’animo di cederglielo. Un’altra volta lo accompagnai in Istria, sull’isola di Brioni, nella residenza di Tito...».
Qual è per lei il posto più bello del mondo?
«La Dalmazia. Una delle isole Incoronate. La spiaggia di Miholašćica a Cherso».
Torniamo alla sua giovinezza.
«Partii militare, cominciando a collaborare con le case editrici. Inesperto del male del mondo, scrissi due libri, una storia della letteratura tedesca e una storia della Germania, che un editore malfattore nazificò».
In che senso?
«Manipolò il testo, mantenendo la mia firma. Rischiavano di uscire con il mio nome frasi tipo: “Il comportamento esoso e sfruttatorio degli ebrei provocò una comprensibile reazione... Protestai. Il malfattore mi chiese in quale sinagoga mi fossi fatto circoncidere. Insomma, l’unica soluzione era recuperare il testo originale che gli avevo consegnato, per provare la mia buona fede».
Come fece?
«Chiesi aiuto a un commilitone, detto il Biondo di Piacenza, che nella vita civile lavorava al luna park, in un autoscontro. Era forte quasi come lo zio lottatore, e sapeva usare le mani. Mi era molto devoto, perché una sera l’avevo riportato in caserma ubriaco. Ero quasi riuscito a convincere l’ufficiale che il Biondo si fosse sentito poco bene; poi lui rovinò tutto, nei fumi dell’alcol gli sibilò “stronzo”, e finimmo entrambi in cella di punizione».
Riusciste a recuperare l’originale dei libri?
«Ottengo l’appuntamento con l’editore nazista. Il Biondo mi dice: “Se arrivano in tre, io ne tiro subito giù uno”. Il linguaggio da professionista mi parve promettente. Salgo in casa editrice, il malfattore mi sbatte le carte addosso, e io le butto giù dalla finestra, dov’è in agguato il Biondo. Missione compiuta. Se fossero usciti quei libri, non avrei mai più potuto pubblicarne un altro».
Lei è l’ultimo superstite dei ragazzi di via Po: oltre a Eco, Furio Colombo e Gianni Vattimo.
«Furio aveva otto anni in più. Gianni lo ricordo bene: all’epoca era cattolico, impegnato nel gruppo Mounier, andavano davanti a Mirafiori brandendo il Vangelo».
Lei crede in Dio?
«Qualche volta sì, qualche volta no. Direi più sì».
Come pensa l’aldilà?
«Come tante unità individuali. Insomma, ci sarà un sacco di gente».
Rimarremo noi stessi?
«Lo spero vivamente. Altrimenti non sarebbe un aldilà».
Ha paura della morte?
«Non credo di averne molta paura; ma non so come reagirei con una pistola puntata alla tempia. Certe cose si capiscono solo quando arrivano».
Chi è il più grande scrittore mai esistito?
«Dante. Ma come si fa a non citare almeno il Don Chisciotte e Guerra e Pace? E Dostoevskij?».
E il più grande scrittore del Novecento?
«Robert Musil».
Non Joseph Roth?
«Io ho dedicato una vita a Roth. Ma “L’uomo senza qualità” è un libro senza confronti».
Perché?
«Perché riesce a far sentire un assoluto che non c’è. Ti fa sentire la varietà della vita. Anche nei romanzi di Tolstoj c’è la pienezza della vita; ma in Musil c’è anche il gelo. Sono libri senza tempo».
E il più grande scrittore della nostra epoca?
«Javier Marias. Aveva anche creato una nazione immaginaria, il regno di Redonda, dal nome di un’isola inaccessibile dei Caraibi. Lui era il sovrano, e mi nominò duca, con il diritto di scegliermi il nome. Scelsi duca di Seconda Mano».
Perché Trieste è una città letteraria?
«Non lo so. Io ho letto prima Victor Hugo di Scipio Slataper o di Italo Svevo. Anche se poi mi sono reso conto che Svevo è grandissimo. Al confronto, Joyce è un autore di serie B. L’ultima pagina che scrisse Svevo è grandiosa».
Quale ultima pagina?
«È mezzanotte, l’ora di Mefistofele, e il protagonista, ascoltando il respiro pesante della moglie – Svevo era privo di galanteria nell’eros coniugale -, si interroga su quel che potrebbe chiedere al diavolo. Sarebbe anche disposto a vendergli l’anima, ma in cambio di cosa? Il sesso? Buono, ma faticoso. L’immortalità? Non poter morire è atroce. Alla fine viene fuori che l’anima non ha alcun potere d’acquisto. Una pagina stupenda. La spiaggia estrema del nichilismo occidentale».
E Saba?
«Il poeta della calda vita, capace di esprimere tutte le realtà, le più grandi e le più terribili: “Passò quel tempo e la calda vita che amavo”».
«Nella mia giovinezza ho navigato lungo le coste dalmate...».
«Isolotti a fior d’onda emergevano...» (prima lacrima negli occhi del professore).
La sua prima moglie, la scrittrice Marisa Madieri, è scomparsa nel 1996.
«Ma ne avverto di continuo le presenze» (Magris ha un gesto come per indicare una persona seduta accanto).
Perché le presenze, al plurale, e non la presenza?
«Perché Marisa non era mai la stessa. La ricordo dura, la ricordo felice. La vedo discutere, la vedo scherzare. La sento mentre mi rimprovera, la sento mentre ride con me» (seconda lacrima negli occhi del professore).
Marisa Madieri è la scopritrice di Mauro Corona.
«Corona è uno scrittore vero. Ha qualcosa. Certo, non è Borges. Ma la letteratura è una scala dai molti scalini».
Lei ha fatto anche politica. Nel 1994 vinse il collegio uninominale al Senato di Trieste, città di destra, facendo l’Ulivo prima dell’Ulivo, democristiani con ex comunisti.
«L’ho fatto malvolentieri, andando contro alla mia natura, convinto che la politica sia un dovere. Vengo da una famiglia repubblicana, di sinistra moderata, riformista. Ma non mi faccia parlare dell’attualità, la prego».
Teme che stia finendo un mondo? I film, il teatro, la musica di qualità, i giornali, forse anche i libri.
«Il timore che stia finendo tutto ce l’ho, anche per un eccesso di estraneità al contemporaneo».
Cosa intende?
«Io scrivo ancora a mano».
Perfetto, così può saltare la macchina da scrivere e passare direttamente dalla penna al computer.
«No, ormai è troppo tardi. Sarebbe già molto che resistessero almeno i bagni di mare. Amo il mare più di ogni cosa al mondo».
Ha ancora speranza?
«La speranza è la più grande virtù. Perché è così difficile vedere come va il mondo, e continuare a sperare».
«Oggi il mio regno è quella terra di nessuno. Il porto accende ad altri i suoi lumi...».
«Me al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore».