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 2025  marzo 23 Domenica calendario

Intervista a Umberto Maggi

Si reputa fortunato, Umberto “Umbi” Maggi. Fortunato negli incontri, nelle scelte, nelle note suonate e stonate della vita. Fortunato nella famiglia, nel fratello, suo complice nella musica; fortunato pure nell’incidente del 1982 che poteva costargli la pelle, non solo la carriera.
Da quaranta e passa anni ha uno dei pochi studi di registrazione organizzato fuori dai circuiti blasonati di Roma e Milano. Ha visto passare dai suoi mixer Vasco Rossi come Zucchero, Andrea Bocelli come Francesco Guccini. Ha inventato una tecnica di registrazione e riproduzione, l’olofonia, che è arrivata fino ai Pink Floyd. “E tutto è partito da quattro corde e una passione”.
Il primo incontro fortunato…
Quello con i Nomadi, nel 1970.
Lei chi era allora?
Uno dei tanti ragazzi che suonavano nei complessini della zona, solo con un po’ di esperienza in più per delle serate insieme a Iva Zanicchi; poi in quel periodo il primo bassista dei Nomadi lascia il gruppo e mi chiamano per un provino.
Loro già famosi.
Quella telefonata mi ha rivoluzionato la vita: avevo già smesso di studiare, suonavo e lavoravo con mio padre.
Quale mestiere?
Magazziniere alla Ferrero; (sorride e abbassa la voce) papà era un dirigente e un giorno mi prese da parte: ‘Con gli studi non hai combinato niente, con la musica neppure. Allora vieni in azienda come ultima ruota del carro’.


Quindi la chiamata.
Dopo un patto con mio padre: ‘Ti do un periodo, se non va torni in magazzino’.

Iva Zanicchi, allora…
Era il 1969, quando vinse Sanremo con Zingara: con lei suonai la stagione estiva. A settembre convocò il gruppo: ‘Mi fermo, sono incinta’.
Ed ecco Beppe Carletti e Augusto Daolio.
L’impatto fu tosto: mi sono trovato davanti a una band famosa, poi siamo diventati amici, però mi prendevano in giro perché mi guardavano come il dandy cittadino, loro figli della campagna.
Cittadino e borghese.
Mi sono adeguato: tra di noi si parlava solo in dialetto, i modi erano più diretti, schietti, anche su come si stava in tavola o cosa si mangiava.
La politica era importante?
Se ne parlava poco; pensavamo solo a suonare.
Comunisti?
No, più anarchici.
I soldi erano importanti?
Avevano il loro peso, ma non eravamo il gruppo che guadagnava cifre incredibili: non aumentavamo mai il nostro cachet, neanche se il disco aveva venduto bene. Insomma, costavamo poco, così ci richiamavano.

Secondo Carletti, eravate perennemente in tour.
Siamo arrivati a 250 date in un anno.

Perennemente insieme.
Non solo in tour: io e Augusto, gli scapoloni della band, ci frequentavamo anche nelle poche ferie.
Augusto Daolio…
Al tempo era sottovalutato, poi al di fuori sembrava un orso, uno respingente; in realtà era di una simpatia rara, così come la sua cultura, la sua visione artistica, il suo carisma sul palco; (abbassa la voce) sono stati 12 anni magnifici.
Fino all’incidente d’auto del 1982.
Stavamo tornando da una serata: io, Beppe e il batterista. All’improvviso, in autostrada, un camion si è ribaltato, l’abbiamo preso in pieno. E il mio braccio si è spappolato per le troppe fratture. Da lì ci siamo fermati dei mesi.
Non è riuscito più a riprendere?
Ci ho provato, ma se suonavo troppo si gonfiava il braccio. Sono stato costretto a rinunciare.
Avete rischiato di ripetere Canzone per un’amica.
Ci abbiamo pensato, eccome. A noi è andata molto meglio rispetto alla ragazza che ha ispirato il brano.
Fine della prima parte della sua vita.
All’inizio non è stato semplice; per fortuna, con mio fratello, avevo aperto uno studio di registrazione.
Il primo album della sua nuova vita.
Il successo è arrivato con Disco bambina, la sigla di Fantastico cantata da Heather Parisi; (sorride) mai avrei immaginato il clamore suscitato da quel brano.
Proprio, mai.
Fu una novità per tutti; mi chiamarono dei produttori da Roma: ‘Vi portiamo una ragazzina senza esperienza di canto, ma veniamo perché avete delle ritmiche più spinte’.
Voi davanti alla Parisi.
Emanava energia e voglia di imparare, capiva che come cantante aveva dei limiti, quindi ascoltava. È stata a casa nostra per dei mesi.
A casa vostra?
Il nostro era uno studio di famiglia, si stava in casa, con mamma che tirava le tagliatelle e papà che portava la Nutella dal lavoro.
Il lambrusco?
Certo e in lontananza si sentiva il rombo della Ferrari, quando provava in pista; da lì è partita la nostra carriera, sono venuti altri, compreso Vasco per l’album Colpa d’Alfredo.
Vasco al tempo.
È come uno lo vede, come lo sente, come lo immagina. Tutti i grandi sanno come sacrificarsi, altrimenti non si regge nel tempo.
Quindi nei primi anni 80 Vasco era già Vasco.
Appena lo vedevi in studio capivi che possedeva qualcosa di speciale, una riconoscibilità tutta sua.
Cioè?
Jovanotti ha il difetto del “cipollino” (la “s”); Romazzotti ha la voce nasale; a questo uno deve aggiungere le emozioni che si sanno trasmettere…
E Vasco?
Era naturale, un vero emiliano. Diretto. Ma le case discografiche non capivano. Negli anni 70, un giorno Vasco mi dà una sua cassettina: ‘Umbi, tu che vai a Milano, prova a sentire se a qualcuno interessa’.
Risposta?
Malissimo, bocciato con la frase: ‘Ci meravigliamo di te: ci fai ascoltare uno che sembra un ubriaco che canta’.

Ha lavorato con Guccini.
Lo ricordo mentre intagliava i legnetti con Augustarello.
Quando?
(Ride) Sempre. Noi organizzavamo le prove e loro due stavano dietro a giocare con i legnetti; comunque Guccini è portatore di una cultura incredibile
: oggi come ieri, mentre parla, insegna.
In sala d’incisione ha mai suonato il basso?
Qualche volta; (ci pensa) ho da sempre uno stile semplice e quando in studio arrivavano dei bassisti molto virtuosi, quando invece serviva linearità, mi chiedevano di intervenire. Mi è successo anche con John Paul Jones, che è uno dei più grandi (ex dei Led Zeppelin).
E lei?
Davanti a John Paul Jones ero in imbarazzo.
Oltre all’imbarazzo, provava orgoglio o rimpianto?
Il rimpianto è da tempo finito.
Oltre a Vasco, chi l’ha colpita?
Tanti; (ci pensa, a lungo) Zucchero: quando è arrivato aveva già l’impostazione statunitense.

Con Zucchero ha fondato la band Adelmo e i suoi Sorapis.

Sono il colpevole.
Racconti.
Era metà dicembre dei primi anni 90. Eravamo in studio. Si parlava delle Feste e butto lì: ‘Perché non partiamo tutti per la montagna’. Accettano. Così in 30 andiamo sulle Dolomiti. Con il patto: vietato parlare di musica.
Sacrosanto.
Sembravamo una combriccola in stile Fantozzi, abbiamo pure giocato a hockey con il cuscino sul sedere per evitare traumi. Fino alla Vigilia: i locali erano pieni. Non sapevamo cosa combinare. Appiedati. Allora mi illumino: ‘Domani sera suoniamo in una saletta privata’.
Ha rotto il patto.
Zucchero mi guarda: ‘Ci manca il chitarrista’. Neanche finisce la frase che vediamo passare Dodi Battaglia e moglie: ‘Dodi!’. Risultato: abbiamo affittato gli strumenti, preso una sala sotto un hotel e via.
Super jam session.
Nella sala di sopra c’era il veglione ufficiale, tutti eleganti e i soliti riti; sotto suonavamo noi come carbonari. Quando quelli di sopra hanno capito cosa accadeva, è scoppiato un casino.
Però?
Ci siamo divertiti come matti, con Zucchero che non era Zucchero, ma Adelmo.
Da lì?
Per tre anni abbiamo ripetuto lo stesso Capodanno, fino a quando ho pensato: ‘Perché non incidiamo un pezzo per gli auguri di Natale da inviare agli amici?’. Ci siamo trovati in studio da me, l’abbiamo inciso, ma qualcuno deve aver spifferato qualcosa.
E…?
La mattina dopo, incredibile, si è presentato il responsabile della casa discografica di Zucchero insieme all’avvocato: ‘Il mio artista è in studio e io non lo so? Fatemi sentire’. Lo ascolta e rilancia: ‘Bellissimo, realizzate un album’. Zucchero risponde ‘no’, poi la sera, a cena, ci ripensa. Alza il telefono: ‘Abbiamo deciso, accettiamo, ma a queste condizioni: niente promozione, andiamo a registrare a Malindi e poi a Betlemme, così facciamo gli auguri da lì’.
E dall’altra parte?
Sì. sì, sì. Un’altra vacanza, ma pagata.
Come mai la band è finita?
Divergenze tra Zucchero e il suo manager (Torpedine).
Da lei è nato anche Bocelli.
Andrea arriva nel mio studio per registrare una cassetta: gli serviva da presentazione per trovare lavoro in un piano bar. Cantava con la voce normale. La mattina dopo torna e lo sento riscaldare la corde vocali con brani da tenore. Io stupito. Passa del tempo e si presenta Zucchero per Miserere: ‘Voglio portare il pezzo a Pavarotti, voglio inciderlo con lui, ma non so come spiegargli la mia idea’. E io: ‘C’è un ragazzo che fa al caso tuo’. ‘Chiamalo, mi serve per domani mattina’.

E lei?
Ho provato a replicare ‘sono le dieci di sera, è tardi’, ma niente. Zucchero ha insistito. Allora ho chiamato la madre, Andrea viveva con i genitori, e loro tutti felici si sono presentati alle 8 del mattino. Da lì è nata la carriera di Bocelli.

Grazie a lei.
Sì, e nell’ambiente lo sanno tutti, anche se in molti hanno provato a intestarsi il merito.
Poteva diventare il manager di Bocelli.
In quella fase potevo chiedergli qualunque cosa.
Suo padre ha assistito alla sua realizzazione?
In parte, sì.
E quando ha capito che la sua scelta, non scolastica, era giusta?
Papà in effetti aveva una doppia personalità: la mattina viveva in giacca e cravatta, ma sotto era contento di me e di mio fratello, ci accompagnava a suonare; dopo le prime serate con i Nomadi guadagnavo più di lui.
I soldi finivano in casa o in tasca sua?
Quasi tutti in tasca e mi sono tolto le prime voglie, soprattutto le auto sportive; ho anche realizzato un prototipo che è stato esposto in un Salone. E dopo 50 anni ne sto realizzando un altro.
Creativo.
Più inventore: da piccolo realizzavo i miei giocattoli, come il primo amplificatore; lo studio di registrazione l’abbiamo costruito con le nostre mani; il primo basso l’ho pensato staccando due corde da una chitarra usata.
Sa leggere la musica?
Sono autodidatta, poi da professionista ho iniziato a leggere un po’ la musica, ma ho lasciato perdere.
Perché?
A parte Beppe Carletti, nessuno di noi era in grado.
Ha affinato l’orecchio.
I musicisti più completi sono quelli che nascono a orecchio, ho conosciuto professori non in grado di suonare un giro di blues.
Lei chi è?
Non lo so; (pausa) metta: un inventore.