Avvenire, 23 marzo 2025
«Trump e una forte protesta possono scalzare il premier»
L’analogia è forte ma efficace. Israele vive il proprio “momento Weimar”. Come la Repubblica tedesca del primo dopoguerra, la democrazia di Tel Aviv affronta gravi sfide politiche interne che potrebbero portarla al collasso. Alon Pinkas, diplomatico di lungo corso e prestigioso commentatore di Haaretz, è convinto che una variabile cruciale possa evitare l’involuzione autoritaria. È il cosiddetto “fattore folla”: la quantità di persone e la costanza con cui i cittadini scenderanno in piazza a protestare contro Benjamin Netanyahu. Negli ultimi giorni sono stati decine di migliaia. «Martedì a Tel Aviv eravamo in 40mila. La spiazzo di fronte al teatro municipale era stracolmo. Per raggiungere le vie laterali dal centro del corteo ho impiegato 25 minuti», racconta l’analista. Giovedì, a Gerusalemme, una distesa di ombrelli colorati è rimasta dispiegata fino a notte sotto la pioggia battente lungo Elieze Kaplan Street, davanti all’ufficio del premier, in attesa del via libera al licenziamento di Ronen Bar, capo del servizio segreto interno, “colpevole” di aver imputato al governo pesanti responsabilità nel massacro del 7 ottobre. Manifestazioni imponenti. Più volte, però, negli ultimi diciassette mesi di guerra, gli israeliani hanno occupato strade e piazze per contestare le politiche dell’esecutivo. Netanyahu, però, è ancora al vertice.
Perché questa volta l’impatto delle manifestazioni potrebbe essere decisivo?
Perché è entrato in gioco un nuovo elemento fondamentale: Donald Trump.
Il presidente repubblicano, però, è considerato il principale alleato del premier israeliano…
Tra i due c’è un’evidente consonanza di vedute. Entrambi sono aspiranti autocrati ostili nei confronti degli equilibri e dei contrappesi dei sistemi democratici. Trump, in quanto emblema del politico-bullo, però, odia la debolezza. Il suo peggior insulto è “perdente”, aggettivo con cui ha definito Volodymyr Zelensky e lo stesso Netanyahu, pochi giorni dopo la catastrofe del 7 ottobre. Per non perdere il suo sostegno, dunque, il premier deve fare di tutto per mostrarsi forte. Washington sa già che il 76% degli israeliani gli imputa la colpa del disastro. E che il 65% vuole le sue dimissioni. Ma, finché questo malcontento non produce conseguenze, Netanyahu può far credere di avere la situazione sotto controllo. Una protesta massiccia e prolungata, al contrario, ne renderebbe palese la fragilità. E allora il presidente Donald Trump sarebbe incentivato a togliergli il proprio sostegno. Per questo, il premier in questi giorni sta cercando disperatamente di mettere in mostra tutti i muscoli.
In quale modo?
Imitando Trump. Non solo sta cercando di smantellare i contrappesi propri di una democrazia, come dimostrano il licenziamento, appena avvenuto, del capo dello Shin Bet e quello imminente della procuratrice generale, Gali Baharav-Miara. Ha cercato di giustificare queste decisioni con una retorica molto trumpiana. Mi riferisco al messaggio su X in cui ha accusato i giudici e lo “stato profondo” di ostacolarlo. È il suo modo di inviare a Trump un messaggio di forza. Che però le manifestazioni partecipate, sul modello di quelle contro la riforma giudiziaria, possono vanificare.
Ci saranno?
Nessuno può saperlo. Di certo le ragioni ci sono tutte: il siluramento di Ronen Bar, la rottura della tregua e la ripresa della guerra a Gaza, la presentazione, la settimana prossima, di un bilancio che destina ingenti risorse agli ultra-ortodossi, i quali continuano a essere esentati dalla leva.
La nuova offensiva sulla Striscia è legata a questi sviluppi politici?
Su questo non c’è alcun dubbio. Israele ha ricominciato i combattimenti per ragioni esclusivamente politiche, non di certo strategiche. La necessità di restare al potere di Netanyahu è stata determinante fin dal principio della guerra. Fin dal 7 ottobre, ha cercato di nascondere il proprio fallimento e di recuperare consensi, imponendo la narrativa della “vittoria totale” contro Hamas. Per questo, per tutto il 2024, ha rifiutato di discutere con Biden l’assetto di Gaza nel dopoguerra e ha proseguito l’offensiva. Ogni soluzione che non contemplasse l’eliminazione completa del gruppo armato sarebbe suonata come una sconfitta. Sempre per motivazioni politiche ora ha ripreso a combattere. Il punto è che evidentemente il conflitto non può smantellare il gruppo armato. Se l’esercito israeliano non c’è riuscito in 15 mesi, perché dovrebbe farcela ora?
I combattimenti segnano un ritorno alla guerra?
È improbabile che Netanyahu si fermi da solo perché, in quel caso, avrebbe abbandonato gli ostaggi per nulla. Più gli scontri vanno avanti, però, più aumenta il rischio di un incidente che attiri le critiche internazionali, facendo arrabbiare Trump. O che Hamas annunci la morte di alcuni ostaggi. La rabbia degli israeliani come esploderà a quel punto?