La Lettura, 23 marzo 2025
Non abbiamo un’altra terra qui a «No Other Land»
«Che bella Los Angeles, per certi versi è una terra che assomiglia alla nostra. Ma ci sono alcune differenze: ad esempio, in California puoi andare in automobile dove ti pare e nessuno sta a guardare se hai una targa di un colore o di un altro».
Villaggio di Al Tawaneh, uno dei molti della municipalità di Masafer Yatta, sud di Hebron, area C della Cisgiordania. Tanta toponomastica, forse troppa, per una manciata di case in tutto, aggrappate strette sulle colline. Ma vicende così intricate e cariche di dolore impongono enorme precisione. È qui che, dagli accordi di Oslo del 1993 in poi, si consuma lo scontro più forte tra israeliani e palestinesi per il controllo della terra. Una storia mai finita che inizia negli anni Ottanta, quando l’esercito israeliano, al posto di quelle case e di quei terreni, decide di insediare un poligono di tiro. Un tentativo chiaro di limitare «l’espansione dei residenti», motiva l’allora ministro israeliano dell’Agricoltura, Ariel Sharon. Così inizia una guerra, fatta di abusi e soprusi, in cui il più forte – i coloni – prova a mettere in ginocchio il più debole – i pastori e i contadini palestinesi.
Avanti veloce fino al 2022, quando la Corte suprema israeliana decide che, sì, il poligono si deve fare. E fino al 7 ottobre 2023, quando Hamas attacca Israele e il premier Benjamin Netanyahu ordina nuove offensive a Gaza e in Cisgiordania. Scuole distrutte, case bruciate, pozzi chiusi con il cemento, donne violentate, bambini rapiti. Sfollati. E morti. Ma a far tornare a parlare il mondo di Masafer Yatta è soprattutto una statuetta in bronzo placcata d’oro consegnata migliaia di chilometri più a occidente.
«Si immagina, io, un contadino a Hollywood...», sorride ancora Nasser Adra, 50 anni, con gli occhi chiari circondati dalle rughe di chi sta al sole a curare la terra tutto l’anno.
Nasser è il padre del coregista Basel Adra che, poco più che 28enne, ha appena vinto l’Oscar per No Other Land, documentario israeliano-palestinese in cui un collettivo di giovani riprende come può, con telefonini o videocamere improvvisate, le condizioni in cui vivono gli abitanti di Masafer Yatta. Nella sua vita Nasser è stato arrestato dagli israeliani dozzine di volte, una anche durante le riprese del documentario. Ha iniziato la resistenza prima dell’avvento degli smartphone. Nel film, Basel, anche lui detenuto per un breve periodo, rammenta di quando, bambino, suo padre lo portava alle manifestazioni per difendere un diritto che sembrerebbe scontato: quello di abitare nella propria casa.
È arrivata la primavera anche in queste terre al di là del Giordano, i mandorli stanno iniziando la fioritura. E a Masafer Yatta gli abitanti cominciano ad attrezzare le loro grotte di tufo per la stagione calda. «Questa è la nostra», spiega Sirra, 90 anni, madre di Nasser e nonna di Basel. Lei che in quella grotta ci è nata, a Hollywood non è andata. Troppo anziana. Sirra si rimira per qualche istante dentro lo specchio a forma di Palestina e si aggiusta il velo, sotto gli occhi della nuora. Poi aggiunge: «Non sono andata, è vero. Ma sono molto orgogliosa di quello che ha fatto mio nipote», spiega a «la Lettura» con un sorrisetto obliquo che, in Medio Oriente, solo l’età consente alle donne.
Lungo le strade del villaggio i bambini e le bambine giocano a pallone e vanno a scuola. È ramadan, si procede più lenti di giorno, in attesa del tramonto e dell’Iftar. «Oggi c’è pace», dice Salim, 30 anni, fratello maggiore di Basel. Salire sulla collina senza aver bevuto e mangiato rende la passeggiata più placida. «Ma non è sempre così». Poche ore prima di quella quiete, i coloni hanno aggredito due ragazzi palestinesi e li hanno feriti. «Vedi laggiù? È lì che hanno ucciso Harun, è scappato proprio lungo quel sentiero».
Salim indica il sentiero sul quale uno dei suoi più cari amici d’infanzia è caduto, ferito da un colpo di un soldato israeliano, mentre cercava di proteggere il generatore della sua casa. Harun è rimasto paralizzato dal collo in giù per due anni, costretto a vivere in una grotta assistito soltanto dalla madre. È morto il 14 febbraio 2023; aveva 26 anni. A ricordarlo, oltre al documentario, un cartellone di metallo completamente sbiadito dal sole, che di Harun mostra solo vaghi contorni. Ma nessuno a Masafer Yatta può dimenticare: «Sua madre è distrutta», spiega Salim mentre imbocca la strada del ritorno.
La storia di Harun è una delle vicende attorno alle quali ruota il racconto di No Other Land. Ma, per rammentare quanto è difficile vivere a Masafer Yatta, c’è anche la gabbia dei polli rasa al suolo dai coloni. «Guarda le reti, le hanno strappate senza curarsi degli animali che hanno ucciso. L’hanno fatto davanti a noi, ai nostri figli, come se ammazzare due polli possa cambiare il corso della storia», sospira Salim. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) conta 1.860 episodi di violenza compiuti dai coloni israeliani in Cisgiordania fra il 7 ottobre 2023 e il 31 dicembre 2024. Nell’ottobre dell’anno scorso un gruppo di coloni ha rapito e torturato un palestinese di 15 anni uscito di casa da solo per prendere l’acqua da un pozzo (in molti centri abitati di Masafer Yatta non c’è acqua corrente). Un anno prima un altro colono ha sparato a un palestinese durante una protesta: intorno a lui c’erano parecchi soldati israeliani, rimasti a guardare. L’uomo palestinese è sopravvissuto, ma nel frattempo ha perso 27 chili ed è costretto a girare con una sacca a causa della colostomia.
Storie che rimbalzano sulle colline. Dalla strada principale, con passo incerto, scende Basel. Indossa ciabatte di plastica della moglie con il pelo nero. Due mesi fa hanno avuto una bambina. Basel sembra stanco, «ho già fatto fin troppe interviste», spiega. Sul sito indipendente «+972 Magazine» ha scritto: «Nonostante il successo di critica del film, la situazione sul campo sta rapidamente peggiorando e il futuro sembra cupo. Negli ultimi sedici mesi i coloni e l’esercito israeliano hanno approfittato del clima di guerra per ridefinire la realtà della regione a favore dei coloni e dei loro avamposti, intensificando i tentativi di espellerci dalle nostre terre. All’ombra della guerra di Israele a Gaza, l’esercito israeliano ha applicato nuove restrizioni per i palestinesi proprietari di terreni in Cisgiordania, per esempio costringendoli a chiedere un permesso preventivo all’amministrazione civile ogni volta che vogliono andare nei loro campi coltivati. In molti casi i coloni entrano su questi terreni illegalmente, mentre ai legittimi proprietari palestinesi è impedito l’accesso».
Ma l’Oscar a No Other Land e l’attenzione del mondo su Masafer Yatta sono un bene o un male? Fra i sostenitori israeliani del documentario si contano Ari Folman, regista del film Valzer con Bashir sui massacri di Sabra e Shatila in Libano; Shira Geffen, attrice e regista oltre che moglie dello scrittore Etgar Keret; il regista Nadav Lapid e l’attrice di origini marocchine Hanna Azoulay. Ma il ministro della Cultura, Miki Zohar, nonostante il film sia stato realizzato senza finanziamenti pubblici israeliani (la produzione è stata sostenuta da donatori norvegesi), lo ha bollato come una forma di «sabotaggio contro lo Stato di Israele». E le proiezioni nel Paese sono pressoché clandestine.
Anche all’altra parte No Other Land ha dato fastidio. Senza pubblicizzarlo troppo, il movimento Bds di boicottaggio di Israele ha pubblicato – solo in lingua araba – un comunicato in cui, con un lungo giro di parole, accusa il film di essere troppo morbido e di mirare alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Critiche mosse dopo che molti registi palestinesi – gli autori sono tanti e le produzioni poche – si sono sentiti messi da parte dal successo di uno solo.
Frustrazione. Rabbia e sensi di colpa. La matassa di Masafer Yatta si ingarbuglia invece di dipanarsi. «Sono stanco di essere un perdente», dice Basel nel film durante una conversazione con Yuval, il suo corrispettivo israeliano. Perché è così che si sente buona parte dei giovani palestinesi, compresi gli attivisti che un Oscar non lo hanno visto nemmeno da lontano. Yuval risponde all’amico con cortesia ma in realtà è in imbarazzo, perché sa di essere dalla parte del più forte, posizione in cui si trova suo malgrado e che lo fa sentire a disagio. Difficile allora che a Masafer Yatta possa esserci pace. E, anzi, c’è chi come Salim teme che la statuetta di Hollywood faccia diventare ancora più ostili i coloni. «Le aggressioni non sono certo diminuite da quando è uscito il film», spiega.
Sheik Saeed Mohammed Rabaa, guida spirituale del villaggio, barba tinta con l’henné, non sembra curarsi molto di tutto questo dibattito. Del film ha visto solo il trailer. Seduto nella sua casa, vicino alla stufa di ghisa su cui tiene appoggiato il Corano, racconta decine e decine di episodi di resistenza al nemico. Come Prometeo viene incatenato a una roccia a subire l’eterno supplizio di un’aquila che si nutre del suo fegato, che si rigenera ogni giorno, così gli abitanti di Masafer Yatta quando i droni e gli occhi dei coloni non vedono, ricostruiscono le case e riscavano i pozzi, in una spirale senza fine.
Ma dove trova la forza sheik Rabaa per continuare a opporsi? L’uomo non risponde subito, poi indica le chiavi che molte famiglie palestinesi tengono appese in memoria della Nakba, l’esodo palestinese del 1948. Le chiavi del ritorno, le chiamano. «Non saprei dove altro andare, questa è la mia casa», dice. E lo sguardo di Salim si accende. «No other land». Nessuna altra terra, appunto.