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 2025  marzo 23 Domenica calendario

Il patriarcato schiaccia le operaie egiziane

«Che cosa è successo a un Paese in cui i giovani credono che diventare un funzionario di basso livello nell’amministrazione pubblica sia il meglio che la vita possa offrire? Quante energie vengono sprecate e quali opportunità perse?», si domanda Leslie T. Chang in Egyptian Made. Donne, lavoro e promessa di liberazione. A sedici anni dal successo di Operaie, la giornalista cinoamericana – a lungo corrispondente del «Wall Street Journal» da Pechino, vincitrice del Pen Usa Literary Award, dell’Asian American Literary Award e del Premio Tiziano Terzani – torna a parlare del lavoro femminile con un reportage sulla manifattura tessile egiziana. Dopo avere vissuto in Egitto dal 2011 al 2016, Chang racconta di un altro mondo per lo più sconosciuto ai consumatori finali di noti marchi di moda, articolato tra piccole aziende e grandi complessi industriali, tra Alessandria e Minya, un’area rurale dell’alto Egitto tra le più povere del Paese.
Leslie Chang, come è nato questo libro?
«Vivevo in Egitto e volevo scrivere delle donne in quel contesto: la fabbrica è un punto di vista sulle dinamiche del lavoro all’interno della società. All’inizio pensavo che l’approccio seguito in Cina non andasse bene. La Cina è la “fabbrica del mondo”; in Egitto non c’è una manifattura dominante a livello globale. Anche se l’Egitto ha il più basso tasso al mondo di partecipazione femminile al mondo del lavoro, volevo capire chi fossero queste donne che sfidano il sistema patriarcale».
Come ha scelto le protagoniste di cui racconta?
«Ho puntato sulle donne che mostravano maggiore personalità perché era più facile parlare con loro e avevo l’impressione che avessero storie più dinamiche. Alla Delta Textile, a Minya, lavorava Rania, l’operaia più brava della fabbrica, una donna aperta ed energica. Quando mi raccontò la sua triste situazione familiare, trovai interessante questo contrasto. Ogni donna che ho incontrato era in qualche modo insoddisfatta, emotivamente o finanziariamente. Credo che Rania, Riham, ingegnera single con la sua piccola azienda tessile di biancheria, e Doaa, che cerca un riscatto nello studio, siano esempi significativi della realtà delle donne del Paese».
In Egitto una donna su tre non sa leggere e scrivere e, racconta, la struttura patriarcale è così forte da screditare qualsiasi politica lavorativa femminile. Non è allarmante?
«La Cina è guidata da persone che hanno studiato nei college, da ingegneri; l’Egitto da ufficiali militari: quale dei due Stati dà più valore all’educazione? Quale dei due dà più valore alle donne? Sono dati scioccanti. In Egitto è molto raro trovare persone che non sono mai andate a scuola durante l’infanzia, eppure nelle fabbriche ci sono donne giovani che non sanno fare la propria firma perché non esiste un contesto socioeconomico nel quale possano fare uso di lettura e scrittura. La fabbrica è percepita come una famiglia: si parla a una collega come a una sorella, alla propria responsabile come fosse una madre. Quando si arriva ai conflitti, nel caso di Rania, gli stessi in cui veniva coinvolta in fabbrica li ho riconosciuti in quelli con il marito, con la seconda moglie e con la suocera. È impressionante come la stessa condizione vissuta in casa, dove Rania era trattata male dal fratello, dallo zio, dal marito, ci fosse nel luogo di lavoro. Tutti sembrano abituati a questo patriarcato sdoganato anche in pubblico».
Le donne possono cambiare questa condizione?
«Dagli anni Duemila in Egitto per una donna è possibile divorziare senza il consenso del marito.
Tuttavia, Doaa divorzia ed è costretta a lasciare le bambine all’ex coniuge perché non le può mantenere, dal momento che lui le nega il denaro che le spetta. Non si può pensare, senza i presupposti economici per percorrere vie alternative, che le donne possano trovare la forza per ribellarsi. Spesso non resta loro che adattarsi a una cultura dove la donna vive per sposarsi e occuparsi dei figli».
Nel libro scrive: «L’omicidio di Giulio Regeni ha rappresentato un crudo avvertimento per giornalisti, studiosi, attivisti e operatori che lavoravano in settori non visti di buon occhio dal governo».
«In un regime autoritario, se lavori su un tema che ha una dimensione politica, com’erano le organizzazioni sindacali nel caso di Regeni, puoi dare fastidio, possono attaccarti in modo crudele. L’Egitto non è un luogo sicuro dove fare il reporter, puoi passare dalla parte sbagliata in qualsiasi momento e subire conseguenze terribili. Ho vissuto la stessa situazione in Cina: se fai qualcosa che il governo considera politicamente critico, possono decidere di zittirti in un istante. Credo che nel caso di Regeni, questa sia una possibile spiegazione».