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 2025  marzo 23 Domenica calendario

C’è vita a Chiulo, dove rinasce l’Africa

Attesa è il contrario di certezza. Come aspettare giorni, a volte settimane, per dare un nome al proprio figlio perché la probabilità che muoia dopo il parto è alta. Attesa è, anche, sopravvivere a otto aborti, fino a quando non trovi quell’unico ospedale che ha gli strumenti per visitarti. E allora attesa diventa il nome di una bambina, Felicidade. L’ha messa al mondo una mamma il cui nome è un’altra forma di attesa: Esperança.
Nella provincia del Cunene, in Angola, a circa mille chilometri dalla capitale Luanda, si trova Chiulo, un ospedale rurale sugli altopiani al confine con la Namibia, gestito da Medici con l’Africa Cuamm, organizzazione italiana per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane. Adiacente, c’è la Casa de Espera (Casa dell’attesa), luogo che permette di partorire in sicurezza.
A questo progetto, ma anche al lavoro dei medici italiani in Angola; alla storia, e al presente, del Paese diventato indipendente dal Portogallo nel 1975, è dedicato La casa dell’attesa (Laterza), il nuovo libro di Fabio Geda, un reportage narrativo nato da un periodo passato col Cuamm in quei luoghi. «La Casa dell’attesa – racconta Geda a “la Lettura” – serve a ridurre la mortalità materna e infantile in occasione del parto perché in molti Paesi dell’Africa subsahariana, soprattutto in quello che loro chiamano l’ultimo miglio, cioè le zone più sperdute, la mortalità è dovuta alla distanza tra i villaggi in cui abitano le donne e l’ospedale. La Casa è un luogo d’accoglienza, che io nel libro utilizzo come punto di partenza per il mio racconto più ampio».
«Qui sono sicura e tranquilla. Non mi sento sola». A 24 anni Fatima Batenga ha già due figli e il terzo in arrivo lo avrà alla Casa de Espera, dov’è ospitata da due settimane. «Sono contenta di essere nella Casa perché grazie alle tre infermiere, e alle loro “palestre”, ho imparato alcune norme di igiene come, per esempio, bollire l’acqua, lavarmi le mani o lavare le verdure. E anche cucinare utilizzando i prodotti locali». Fatima arriva da Tchiaungo, località a dieci chilometri da Chiulo, dov’è s’è presentata con una moto. A metterci in contatto con lei è Laura Villosio, dottoressa di base chiamata dal Cuamm come responsabile coordinatrice dell’area del Cunene. «Per questa conversazione – dice —, abbiamo acceso il generatore per avere la connessione; ma di solito in ospedale siamo senza luce e senza acqua corrente stabile, che il Cuamm compra e mette in una cisterna sotterranea. Provi a immaginare un parto senz’acqua: lo staff che lavora qua, sia pure in condizioni precarie, fa miracoli».
Oggi l’Angola – grande quattro volte l’Italia – conta circa 30 milioni di persone, di cui una decina vive a Luanda. La guerra civile, finita nel 2002 e durata 27 anni, ha devastato un Paese che attualmente è in forte crescita, e dove metà della popolazione ha meno di 25 anni.
Villosio spiega che la Casa ospita circa 70 donne al mese (2.000 parti nel 2024), tutte giovani, anche quattordicenni. «Per loro è impensabile non avere figli, è come se non fossi donna, vieni esclusa socialmente. La Casa è dell’ospedale, e il Cuamm la sostiene. Facciamo dimostrazioni culinarie e distribuiamo, ogni settimana, un kit alimentare con un litro di olio, un chilo di farina di fuba, riso, fagioli, concentrato di pomodoro e una barra di sapone. Il team dell’ospedale è composto da due medici italiani: uno specializzando in pediatria e uno in ostetricia e ginecologia; poi ci sono tre medici di base angolani. E c’è l’unico ecografo nel raggio di circa 150 chilometri. Mancano i medici perché qui siamo molto isolati». Le donne che arrivano abitano a 20-40 chilometri di distanza, in luoghi rurali, dove non c’è acqua, le ambulanze sono rare, e per raggiungere l’ospedale si muovono a piedi, o coi mezzi pubblici: moto, carretti, minibus. «Nascono tanti bimbi, ma ne muoiono altrettanti con le mamme. Lavoriamo a progetti di salute pubblica per spingerle ad andare prima nei centri di salute del territorio, poi in ospedale a partorire, in modo sia garantito anche il cesareo. E coinvolgiamo le parteiras tradicional (le levatrici, ndr) per convincere le donne a non partorire a casa. Ma è un cambiamento lento».
«Le donne che ho incontrato sono distrutte dalla fatica – ricorda Geda – che reggono sulle loro spalle tutto il nucleo familiare, composto da decine di persone. In quella zona è comune la poligamia e le famiglie vivono in una comunità, kimbo, di villaggetti sparsi nel mato, la savana. Gli uomini fanno molto poco; le donne lavorano e gestiscono decine di ragazzini e ragazzine».
Anche l’approccio alla medicina cambia in quei luoghi. Prosegue Geda: «C’è un rapporto corpo a corpo: ti guardo, ti tocco, ti ausculto. Da noi oggi la medicina è mediata delle macchine; spezzettiamo il corpo in mini porzioni che vengono lette da Tac, esami, ecografie. Qui è più utile avere una competenza diffusa che iperspecialistica. Poi queste popolazioni hanno una loro tradizione medica di “guaritori”, che hanno autorevolezza da un punto di vista tecnico e culturale con cui il medico occidentale deve saper dialogare». Conferma Villosio: «Il battito fetale, per esempio, si ascolta con uno strumento che amplia il suono cardiaco in modo acustico; oppure si usano la mano e l’orecchio sulla pancia. L’approccio è più essenziale, ma più umano».
Lo spazio dell’attesa, nel libro di Geda, non è solo quello delle donne nella Casa. Spiega l’autore: «Mi hanno colpito la caparbietà e la perseveranza delle persone che lavorano lì; delle popolazioni che lottano per la vita, per il territorio. Così, la Casa dell’attesa si è trasformata da quel luogo fisico che ero andato a vedere, a un simbolo, una dimensione della vita». Nel libro si intrecciano storie e figure diverse di questo Paese, che hanno vissuto l’attesa in modo non passivo. Come Agostinho Neto (1922-1979): «Racconto il primo presidente dell’Angola – prosegue l’autore —, padre della patria, medico e poeta. E narro il suo modo di fare il medico, a tutti i costi, anche in esilio. Poi, la prima edizione internazionale delle sue poesie è stata pubblicata da Alberto Mondadori nel 1963 con la traduzione della partigiana Joyce Lussu: dall’Angola, questa storia si è intrecciata all’Italia».
È al termine del viaggio, che a un certo punto Geda lascia nel suo libro un’immagine capace di tenere insieme tutto: «Davvero, questo nostro pianeta, la Terra, assomiglia a una gigantesca Casa de Espera. Dove non solo a dare alla luce i bambini, si fatica. Ma anche a dare alla luce il futuro. O una singola giornata».