La Lettura, 23 marzo 2025
Asia, tre giorni in aprile
5 aprile 1975
17 aprile 1975
30 aprile 1975
Aprile è il più crudele dei mesi, nell’Asia del 1975. Tre giorni – il 5, il 17 e il 30 – hanno ridisegnato il mondo. Ovvio, in fondo: qui la guerra fredda era caldissima. Il canovaccio del dramma in tre atti era già abbozzato ma le date segnano un cambio di stagione. Il 5 a Taipei muore Chiang Kai-shek, 87 anni, leader della Cina nazionalista, arroccato a Taiwan dal 1949, arcinemico (ma a tratti alleato) del comunista Mao Zedong. Il 17 cade Phnom Penh e nella capitale della Cambogia il regime sostenuto dagli americani si squaglia ed entrano i guerriglieri conosciuti come Khmer rossi: nazionalisti, sì, ma marxisti; di più: maoisti. Li guida Pol Pot, nom de guerre di un rivoluzionario nato nel 1925, Saloth Sar, ma ancora non lo sa nessuno: si mostrerà tempo dopo. I Khmer rossi, xenofobi e razzisti, bruciano sul tempo i comunisti rivali – i vietcong e l’esercito nordvietnamita – che il 30 aprile si prendono Saigon, la capitale del Vietnam del Sud per il quale, fino a due anni prima, erano morti oltre 58 mila soldati americani. Tre epiloghi diversi ma paralleli avviarono, mezzo secolo fa, tre parabole divergenti.
Taipei, sabato 5 aprile
Chiang si fa vedere in pubblico di rado, la polmonite del 1972 l’ha indebolito. Il potere su ciò che resta della Repubblica di Cina – Taiwan e una manciata di isolette – è già di fatto passato al figlio Chiang Ching-kuo. Alle 22.20 ha un attacco di cuore nella residenza di Shilin, fuori dalla capitale. Durante l’occupazione coloniale giapponese Shilin era stata una stazione di orticoltura, una sorta di giardino botanico: Chiang Kai-shek l’aveva fatta diventare la residenza ufficiale mutando sé stesso in un esemplare sopravvissuto a un’altra era, un cimelio umano. Trasportano il Generalissimo all’ospedale centrale di Taipei dove alle 23.50 è dichiarato deceduto. Due ore dopo viene diffuso il testamento politico del leader, redatto il 29 marzo: esorta il partito, il Kuomintang, a riprendersi la «madrepatria». Vaneggiamenti postumi: nonostante la retorica dell’«unica Cina», l’impasse tra le due Repubbliche, quella comunista di Pechino e quella fascistoide di Taipei, è consolidata; i rossi e gli Usa si parlano, addirittura. Ma i simboli sono tutto, e – scrive il biografo Jonathan Fenby in Generalissimo – il corpo di Chiang «non viene seppellito. L’interramento avrebbe significato ammettere la sconfitta finale. Così il suo corpo giace in un sarcofago di marmo» in attesa del «ritorno su quella madrepatria che Chiang considerò sempre suo destino unire e che invece si condannò a perdere».
Phnom Penh, giovedì 17 aprile
Congestionata da decine di migliaia di profughi dalle campagne dove si combatte, la capitale della Cambogia aspetta l’ineluttabile. Che per ciò che resta del regime «repubblicano» al potere dal 1970 è la fine e basta, mentre per gran parte della popolazione è la fine dell’incubo. In mattinata i Khmer rossi si muovono da 14 località tutt’intorno alla città. Trovano resistenza vicino all’aeroporto ma hanno la meglio su tenaci unità di paracadutisti. Poi arrivano. Entrano silenziosi e selvatici, quasi tutti in nero. Sandali ricavati da pneumatici. Giovanissimi, non hanno mai visto un’automobile né bevande confezionate: se uno stappa una lattina di Coca-Cola, qualcun altro tracanna una latta di olio per motori. Qua e là appartenenti a unità differenti si sparano addosso: non si conoscono, vengono da parti diverse del Paese e del fronte, non c’è coordinamento tra i capi. Nel pomeriggio la confusione festosa della popolazione che saluta i liberatori è spazzata via dall’ordine perentorio: evacuare la città. Fuori tutti, «gli americani bombarderanno». I soldati ragazzini entrano negli appartamenti e trovano cose mai viste: elettrodomestici e sanitari confermano le verità di martellanti indottrinamenti, la città è una grande sgualdrina e l’umanità che vi si raccoglie è degenerata. L’ordine di andarsene non risparmia i malati ricoverati negli ospedali. A fine giornata le premesse di ciò che sarà la Cambogia fino al 7 gennaio 1979, quando l’invasione vietnamita metterà fine al regime dei Khmer rossi, hanno la forma di colonne di profughi in marcia verso le campagne. In un Paese trasformato in una colossale comune agricola, dove le esecuzioni sommarie sono prassi quotidiana, le vittime saranno un milione 700 mila almeno.
Saigon, mercoledì 30 aprile
La caduta di Saigon è preceduta da frenetici cambi di leadership al vertice della marcescente repubblica sudvietnamita e dalla scenografica evacuazione degli americani (e di chi, tra i locali, era riuscito a farcela) dal tetto dell’ambasciata. Alle 7.45 del mattino del 30 l’ultimo elicottero si porta via gli ultimi 11 marine. Poi «un disperato silenzio calò sulla città», scrive Tiziano Terzani in Giai Phong!. Alle 9.30 la resa delle autorità che parlano dei nemici come dei «nostri fratelli dell’altra parte»; poco dopo un carro armato T390 della 203ª brigata corazzata dell’esercito di liberazione sfonda i cancelli del palazzo presidenziale. Alle 11.30 un ufficiale comunista, Bui Quang Than, ammaina la bandiera gialla con le tre bande rosse dal tetto dell’edifico e la rimpiazza con quella dei vietcong. Il 2 luglio 1976 i due Vietnam verranno formalmente riunificati e Saigon sarà rinominata Thanh pho Ho Chi Minh, ovvero Città di Ho Chi Minh. Nel frattempo, i Khmer rossi cambogiani da rivali divengono nemici, ed è guerra.
Cinquant’anni più tardi
Tre giorni in aprile. Mezzo secolo dopo, Taiwan, Cambogia e Vietnam rappresentano tre modelli diversi. Li accomuna la geografia, non il destino. L’isola che fu di Chiang è una democrazia compiuta, forse la più avanzata in Asia. Elezioni libere, alternanza al potere tra il vecchio Kuomintang e gli «autonomisti» del Dpp, la sua società aperta resiste alla minacciosa pressione della Cina che mira alla «riunificazione»: l’addio alla dittatura, avviato da Chiang junior nel 1987, ha funzionato, al netto delle ombre sul futuro. La Cambogia è invece l’esempio di una chance sprecata: la missione Onu (1993) aveva posto le friabili basi perché ai massacri e al caos (si combattè anche per tutti gli anni Novanta) seguisse una normalizzazione democratica. Niente: il potere è passato di padre (Hun Sen) in figlio (Hun Manet), primi ministri autoritari con un sovrano (Norodom Sihamoni) ininfluente; afflitto dalla corruzione, il Paese si è dato in pasto alla Cina, la stessa Cina – paradossi della storia – che sostenne i Khmer rossi. Cambogia, quindi, esempio di quelle nazioni fragili risucchiate nella sfera d’influenza di Pechino e nella trappola del debito. Il Vietnam ha proseguito il suo percorso di regime comunista novecentesco, con periodiche aperture e consolidamenti, repressivo ma meno ossessivamente della Cina. Proprio l’aggressività e le ingerenze territoriali di Pechino (che si è intestata isole rivendicate da Hanoi) hanno rovesciato la prospettiva di quel 1975: i nemici di allora, gli Usa, sono quasi gli amici di oggi.