La Lettura, 23 marzo 2025
La scuola sta per finire. (E non è una bella notizia)
Racconta Jacques Attali che un giorno, in prima liceo, il professore di fisica gli disse davanti alla classe: «Attali, se gli idioti volassero, lei sarebbe capo squadriglia». Elegante esempio di insegnamento tramite l’incoraggiamento e la benevolenza. Oggi ottantunenne, plurilaureato economista, banchiere, consigliere e consulente di presidenti da Mitterrand a Sarkozy fino a Macron e scrittore di oltre 80 saggi venduti in 10 milioni di copie in tutto il mondo, Jacques Attali pubblica in Italia, per Fazi, Conoscenza o barbarie. Storia e futuro dell’educazione. Un volume appassionante che ripercorre la storia di come l’uomo abbia cercato di trasmettere le conoscenze attraverso i secoli, e un monito sui rischi di abbandonare questa impresa titanica e al tempo stesso irrinunciabile, a meno di non accattare una nuova barbarie.
La prima parte del libro è una storia erudita e interessante dell’educazione Paese per Paese. Come mai si è voluto dedicare a questo?
«L’ho fatto anche per altri libri, in modo sistematico. Ho scritto una storia della sanità, del mare, dei media, della proprietà, dell’amore... Mi dico che se ci sono leggi valide per tremila anni, forse almeno alcune di esse potrebbero durare per qualche altro anno ancora».
Che differenza c’è fra trasmissione ed educazione?
«Per molti secoli si è trattato solo di trasmettere alcuni saperi ad alcune persone, l’educazione è un fenomeno molto recente che comincia all’incirca 500 anni prima della nostra era, quando si assiste all’inizio di una specializzazione della funzione dell’insegnamento, quasi sempre esclusiva delle chiese».
Lei dedica alcune pagine interessanti ai tentativi, in particolare della Francia, di togliere alla chiesa il ruolo preminente nell’educazione dei cittadini.
«La Francia è un caso particolare perché davvero ci ha provato più degli altri. Con la fine dell’ancien régime e l’avvento della République la Francia tenta l’esperienza unica al mondo di un’istruzione slegata da qualsiasi radice religiosa. È una visione applicata a tutta la società perché la Francia inventa quel concetto molto particolare che è la laicità, che non è stato ripreso altrove. La scuola pubblica è laica ed è stata a lungo un motivo di orgoglio della Francia, ma gli istituti cattolici continuano ad avere un ruolo».
Dove nasce l’istruzione per tutti?
«Nei Paesi Bassi, ma resta un’educazione religiosa, dominata dalla chiesa protestante. Si sviluppa nell’Europa del Nord, in Gran Bretagna e poi nel resto dell’Europa e nel mondo».
Tra le tante curiosità del libro c’è il caso dell’Argentina, che lei definisce «un’Italia in America».
«Una concessione al mio amore per l’Italia e per la lingua italiana, che ho studiato e che purtroppo non riesco a praticare abbastanza. Ma è vero che Buenos Aires ricorda Milano, le radici italiane dell’Argentina sono evidenti. Nel 1868 è alfabetizzato solo il 13 per cento della popolazione, soprattutto i discendenti dell’immigrazione italiana. Anche qui la lotta per il controllo dell’educazione è dura, in questo caso tra la chiesa cattolica e la massoneria».
Quanto all’Italia, lei parla di «grande ritardo».
«Ci sono alcuni dati negativi: nel 2017 solo il 25 per cento dei ragazzi tra i 25 e i 34 anni ha una laurea, mentre per i 35 Paesi dell’Ocse la media è del 43,1 per cento. E oltre 260 mila laureati under 40 si sono trasferiti all’estero. Ma in questo disastro, l’Italia è il primo Paese al mondo ad avere inserito nel 2019 lo studio del riscaldamento globale a scuola».
E secondo lei la Svezia, a lungo considerato un modello, ha fallito.
«È terribile, un sistema eccezionale che si è formato e fortificato in tantissimo tempo può crollare molto rapidamente. Il sistema svedese era giudicato il migliore sotto molti aspetti, e ha anche innovato permettendo di usare un voucher per scegliere se mandare i figli nel pubblico o nel privato. Ma l’apertura al privato non è riuscita, il livello si è abbassato. Oggi i modelli sono altri».
Quali sono i Paesi all’avanguardia?
«Singapore e la Finlandia. Ed è interessante osservare che i due sistemi stanno convergendo, stanno prendendo l’uno alcune caratteristiche dell’altro. Il metodo di insegnamento delle materie scientifiche di Singapore è ormai universalmente adottato dall’Ocse, e il sistema di Singapore, in origine legato al vecchio metodo confuciano duro e selettivo, sta evolvendo per integrare la cooperazione, il lavoro in équipe, meno voti, meno sforzi individuali».
Un aspetto terribile dell’educazione per come si è evoluta nei secoli è che il maltrattamento degli alunni è il filo conduttore ovunque, una pratica sistematica, non episodica.
«È consustanziale a tutti i sistemi educativi, purtroppo. Picchiare i bambini è un metodo educativo, lo ritroviamo tra gli egizi e i cinesi, dappertutto. E la violenza si trasmette attraverso le generazioni, anche in modo indiretto».
Lei fa una distinzione tra un approccio verticale e uno orizzontale, secondo la tradizione delle chiese.
«Il metodo della scuola cattolica è più verticale. Come è noto, la chiesa di Roma ha ripreso l’organizzazione militare dell’impero romano, mentre il sistema protestante è più orizzontale. Il sistema cattolico si fonda sulla gerarchia e una trasmissione a senso unico, non c’è l’idea di conversazione, di dialogo, di diritto a una risposta. Ma se non puoi rispondere, creare, inventare, non impari nulla. Il sistema romano, che ritroviamo anche tra i cinesi, è l’apprendimento nudo e crudo, la selezione, l’imparare a memoria. La scuola protestante è più orizzontale, privilegia la personalità, l’innovazione, il lavoro personale. Funziona meglio».
Il sistema orizzontale protestante si occupa di più del benessere degli allievi e quindi della società?
«In teoria, perché poi anche lì la scuola è una metafora, o meglio un’anteprima, del lavoro. La scuola viene organizzata come il lavoro. Quando i bambini vivevano in campagna, imparavano a lavorare con i genitori, la scuola non esisteva. Con lo sviluppo dell’artigianato la scuola è caotica, i bambini si aggirano come in un laboratorio artigianale. Con la società industriale e il lavoro in catena di montaggio, anche la scuola si trasforma, gli allievi passano da una classe all’altra, come alla catena in fabbrica».
Questo ci dice qualcosa sul futuro dell’educazione?
«Credo di sì, perché lo smart working allarga le possibilità della scuola a distanza, come si è visto durante il Covid, e non è detto che sia un bene».
Un capitolo s’intitola «La fine della scuola».
«Già adesso, in certe zone del mondo, la scuola sta morendo. Abbiamo raggiunto una vetta dove quasi tutti sanno leggere, ma presto potremmo cadere e l’analfabetismo tornerà a guadagnare terreno. In India la situazione della scuola è catastrofica, chi può mette i figli nelle poche scuole private. In Africa l’esplosione demografica porta a classi di centinaia di allievi, in Cina solo i figli di un’élite ristretta possono permettersi studi accettabili. Esiste una specie di fiction della scuola, la diamo per scontata ma in molte aree del mondo la scuola non esiste già più. E siccome la natura ha orrore del vuoto, al posto della scuola arrivano gli estremisti. Il caso della Nigeria e degli islamisti in questo senso è illuminante».
E in Europa?
«Siamo a un bivio. Dovremmo triplicare gli investimenti, e insistere con l’idea delle quote per riservare posti nelle migliori scuole ad allievi che arrivano dalle periferie. La riproduzione sociale è uno scandalo: in Francia il figlio di uno studente di un’università d’élite ha 80 volte – dico bene: 80 – più probabilità di frequentare la stessa università d’élite rispetto a un altro. La barbarie è alle porte. Siamo ancora in tempo a salvarci ma dobbiamo agire e puntare tutto sulla tenacia, nostra e degli allievi. La particolarità della partita è che siamo all’intervallo dopo il primo tempo, stiamo perdendo 3 a zero e l’avversario siamo noi stessi».