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 2025  marzo 23 Domenica calendario

Gli assassini della domenica. F & L

Andiamogli a vedere le carte, anzi, la mappa e i manoscritti. Andiamoglieli a vedere, e sarà la prima volta in assoluto che succede. Succederà a Torino, cioè sul luogo stesso del delitto, mercoledì prossimo 26 marzo: con l’inaugurazione, al Circolo del Design in via San Francesco da Paola numero 17 (occhio agli indirizzi in questa storia, e perfino ai numeri civici!), della mostra La donna della domenica: una signora città.
Si dice suppergiù da sempre che La donna della domenica di Fruttero & Lucentini è il più bel romanzo su Torino. Esiste un unico suo competitor (così lo definirebbe quello snobismo a prezzi modici che proprio F&L e proprio nella Donna prendono soavemente in giro) ed è Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, 1963. Due libri toccati dalla grazia, che però su F&L fu lenta a discendere: il Lessico fu scritto in due mesi mentre La donna ebbe una preparazione di quasi sette anni e di cui oggi ricorre un anniversario tondo, il sessantesimo. Come se non bastasse, F&L cambiarono in corso d’opera non solo il progetto narrativo ma perfino l’ambientazione del primo nucleo di pagine: quelle che, incluse nella mostra, compaiono qui in anteprima.
Torino, tarda primavera 1965. Fruttero e Lucentini stanno preparando per «Panorama» un’antologia di 10 racconti per l’estate, ma giunge notizia che i diritti di una delle storie non sono disponibili. Decidono così di scriverne una loro stessi e di infilarla (firmandola con uno pseudonimo) in mezzo alle altre. Non sarebbe la prima volta; lo hanno già fatto, ma per divertimento e non per necessità, quando allestivano per Einaudi le loro antologie di fantascienza e di racconti di fantasmi. Il racconto destinato a «Panorama» comincia così: «Quando scostò le porte a molla della stazione del métro, e guardando in su vide, quasi a picco, l’ultima rampa di scale che poi continuava nella ripida rue du Cardinal Lemoine, cercò di convincersi che era molto stanco. Fece i gradini adagio, prendendo tempo. Doveva risparmiarsi per la salita, e poi per i cinque piani fino all’appartamento di Barbara, che abitava in una casa senza ascensore. Una volta, nei primi mesi dopo che l’aveva conosciuta, arrivava da lei sempre senza fiato, faceva tutto di corsa, col cuore in gola. Ma adesso non era più il caso. “Non è più il caso” pensò “dopo tre anni”. Barbara stessa, che era una ragazza intelligente e autonoma, l’avrebbe trovato ridicolo».
È F. a scrivere a penna questo racconto parigino su uno dei suoi bloc-notes (li prende dal tabaccaio così come le biro, strumenti da poche lire per non dare importanza a ciò che scrive), ed è già arrivato oltre metà quando il problema-diritti si risolve; l’apocrifo non serve più. A questo punto è L. ad avere l’idea di spostare da Parigi a Torino l’ambientazione e di inserire l’episodio in un altro progetto narrativo in comune che proprio allora va prendendo forma, con il titolo provvisorio «La signora torinese». Più avanti, L. avrà un’idea più indovinata ancora, trasformare Barbara in un uomo. Così, quella che era una normale baruffa tra innamorati etero, un ragazzo-bene e una ragazza di condizione modesta, avrà l’effetto della novità anche nei dettagli più ovvi.
Detto fatto, la vicenda si trasferisce da rue du Cardinal Lemoine (Parigi, Quartiere Latino) a via Berthollet (Torino, San Salvario), mentre la coppia che litiga su una vacanza estiva in Grecia oppure nel Monferrato risulterà composta da Lello Riviera, impiegato al Comune di Torino, e da Massimo Campi, «unico figlio dei miliardi di suo padre». E, nella primavera del 1972, i lettori della Donna della domenica ritroveranno – nel quarto capitolo del romanzo e con poche varianti – le pagine buttate giù da F. sette anni prima sul bloc-notes che oggi riemerge, con la copertina mezza stracciata, dal suo archivio.
Parigi che diventa quasi subito Torino, dunque, e «La signora torinese» che nel corso di quasi sette anni diventa La donna della domenica, ferma restando però Torino. Già, ma perché Torino? Che sia stato per impulso di Carlo Fruttero, classe 1926 e torinese, si può capire. Ma cosa c’entra Franco Lucentini, nato a Roma la notte di Natale del 1920, che avrà anche parlato le sue tredici o diciassette o venti lingue straniere (non è uno scherzo: più o meno tante erano, anche se non si è mai saputo di preciso quante) ma che le parlava tutte con l’accento romanesco? E invece fu proprio L. ad aizzare F. su Torino: «Franco s’accorgeva più e meglio di me della singolarità di quel luogo. Ne sottolineava la stranezza, la diversità, l’aspetto metafisico. Scorgeva in ogni angolo della città un quadro di de Chirico». Il programma di lavoro di F&L, e al tempo stesso il suo consuntivo, è in un’intervista realizzata per iscritto nel 1988 ma rimasta inedita; eccone un brano, stampato qui per la prima volta: «Nel caso della Donna della domenica noi avevamo sottomano uno straordinario “oggetto narrativo”, Torino, la città più enigmatica, o meno nota, d’Italia, di cui l’immagine letteraria era rimasta deamicisiana o gozzaniana. Ma noi, vissuti a lungo all’estero, la vedevamo come il veicolo ideale per tentare un romanzo metropolitano in un Paese che ha sempre prodotto una quantità esorbitante di romanzi di campagna o di provincia, storici, fantastici, psicologici, di memoria, sperimentali ecc., senza praticamente mai prendere di petto una città moderna. Adottammo lo schema poliziesco perché, nell’ovvia impossibilità di rifare il verso a Balzac o quantomeno a Matilde Serao, ci sembrò il più funzionale (un poliziotto indaga per definizione in tutti gli strati sociali) e anche il più divertente, o stimolante, per noi, vecchi amatori del genere. Fu anche una specie di sfida, in questo senso».
Arrivati fin qui si potrà ormai capire perché un’istituzione (torinese) come il Circolo del Design abbia raccolto la sfida di dedicare una mostra a F&L e alla loro prima Torino (com’è noto ce ne sarà poi una seconda: la Torino di A che punto è la notte, 1979, che è come il negativo topografico della prima). Già potrebbe bastare il fatto che La donna della domenica è un’architettura narrativa realizzata su progetto dello Studio Associato Fruttero & Lucentini, ma il fatto ancora più pertinente è che in questa storia i personaggi s’identificano con i luoghi in cui vivono, agiscono e magari commettono (o sono vittime di) delitti, a cominciare da quello annunciato nella prima riga e mezza del romanzo: «Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte».
L’architetto Lamberto Garrone è Torino, sia pure una Torino malamente andata a male. Vediamo infatti in che modo la signora torinese Anna Carla Dosio, protagonista femminile del romanzo, spiega al protagonista maschile, il siciliano commissario Santamaria, perché considerasse Garrone un personaggio «osceno»: perché era «come se in lui fossero concentrati – ma corrotti, putrefatti, sinistramente esasperati, stravolti da una mortuaria alchimia – difetti e virtù di una Torino sepolta di fresco, o comunque in rapida decomposizione: la parsimonia, ma incancrenita nei modi del morto di fame; il riserbo, ma degradato a losca elusività; il conformismo, ma fermentato in progressive purulenze; la cortesia, ma liquefatta in adulazione; il vecchio stile, ma mangiato dai vermi di abbiette civetterie, di atroci vezzi».
Al personaggio Garrone corrisponde il luogo che egli si compiace di chiamare «studio» benché a tutto serva tranne che a esercitare la professione di architetto: «Si guardò intorno. Poteva andare. La branda nell’angolo restava in una penombra discreta, come pure la tenda dell’acquaio; e il lume verde da ufficio, rimasto acceso sul tavolo a cavalletti, conferiva all’ambiente un tono professionale che non guastava. Sul tavolo stesso – l’architetto ebbe un fine sorriso – il fallo rituale di pietra metteva invece una nota di spregiudicato, ma non corrivo, esotismo: stava a ricordare che se quel suo studiolo era necessariamente modesto, lui restava un uomo non soltanto di mondo, ma di cultura».
Ecco: il fallo di pietra che intorno alle 22.30 di quel martedì di giugno qualcuno impugnerà per sfondare il cranio di Garrone con un colpo vibrato a perpendicolo rappresenta un confine che con La donna della domenica F&L varcano con spensierata risoluzione: il confine tra il «giallo» – tra il manufatto seriale, tra il prodotto di genere – e la letteratura. Più indizi suggeriscono questa pista. Innanzitutto, i due fogli dattiloscritti (inediti, manco a dirlo) su cui L. trascrive a macchina, da fonti antiche e moderne, brani sul culto del phallus: da Giuseppe Parini a Mircea Eliade, da Orazio a Voltaire, dal Totius Latinitatis lexicon di Egidio Forcellini all’Encyclopédie di Diderot & d’Alembert, sono i brani che troveremo rifusi nel capitolo VII del romanzo, nel corso del colloquio (che si svolge alla presenza di Massimo Campi) tra il commissario Santamaria e il dottissimo monsignor Passalacqua, il quale fornisce una dettagliata consulenza sull’arma del delitto, o meglio: sull’oggetto di arte antica che ne è stato il modello. Infatti, così come Garrone è una immagine declassata di Torino, allo stesso modo il fallo che teneva sul suo tavolo era una volgare copia – «un tizzo d’inferno» lo definisce Passalacqua – del celebre «fallo cemeteriale di Gubbio» scolpito tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo.
F&L sono stati così toponomasticamente sottili da collocare lo studio di Garrone nell’ultimo tratto di via Mazzini, poco prima che essa sbocchi su corso Cairoli e sul Po: al civico 57, che però in via Mazzini non esiste; l’ultimo numero dispari di questa via è il 53, un palazzo per uffici costruito a metà anni Cinquanta del secolo scorso. Che in Garrone, e con quella incresciosa arma del delitto, F&L abbiano voluto assassinare la letteratura fatta in serie e affermare l’eccellenza, l’unicità del proprio manufatto romanzesco? Che nella Donna della domenica siano proprio loro gli autori del delitto o quantomeno del primo delitto? Può darsi, anche perché ce ne sarebbe un ulteriore indizio, documentato proprio in queste pagine: la foto in bianco e nero che mostra F&L sul balcone di casa Fruttero, il quale negli anni della Donna abitava al civico 4 di corso Cairoli. A un romanziere come F. bastava un attimo per uscire di casa, svoltare l’angolo e uccidere una persona inventata a un indirizzo inesistente. Oltretutto, con un complice esperto come L. poteva andare sul velluto.
Scherzi e ipotesi a parte, l’arma del delitto Garrone – un atipico oggetto di design – ha giocato fino all’ultimo un ruolo importante e ha rischiato di determinare il titolo stesso del romanzo. Sul cartone di retrocopertina di un altro dei suoi bloc-notes (l’archivio privato ne contiene circa duecento), F. allinea infatti, su due colonne, sedici titoli-prova: «La ricostruzione del delitto»; «L’architettura del delitto»; «Il filo del delitto»; «Lo spaccato del delitto»; «Il plastico del delitto»; «La scultura del delitto»; «Spaccato di assassinio»; «Delitto diramato» (?); «Delitti parlanti»; «Il delitto scolpito»; «Assassinio scolpito»; «Morte per/da scultura»; «Di spada perito» (bel doppio senso!); «Assassinio di circostanza»; «Ogni delitto è debito»; «La belle dame sans merci». Come si vede, solo l’ultimo riguarda la figura femminile che nel romanzo si può definire «la donna della domenica»: e, come sa chi è al corrente della trama poliziesca, non si tratta solo e necessariamente della giovane e bellissima Anna Carla Dosio.
Giallo, allora? O invece autentica e magari alta letteratura? F&L volevano innanzitutto che La donna della domenica fosse un oggetto misterioso, bello e divertente da leggere così come per quasi sette anni lo avevano concepito e poi scritto, avendo perfino il coraggio, a metà percorso, di demolirlo fin quasi alle fondamenta per poi ricostruirlo con pazienza sulla base di un nuovo progetto.
Il punto è che la linea di confine tra opera seriale e opera seria si può attraversare nei due sensi, e F&L lo hanno fatto più volte: loro, e insieme con loro la casa editrice Mondadori che nella primavera 1972 pubblicò La donna della domenica. Il lancio ebbe pochi precedenti per clamore e inventiva. Tra le sorprese destinate al pubblico ci fu la busta gialla qui riprodotta, che riporta, colorate in blu cupo, le sagome dei personaggi principali. Dentro la busta c’era una pagina-lenzuolo dell’«Espresso», con indiscrezioni sul libro a firma di Marialivia Serini, e c’era soprattutto un poster double-face con gli stessi colori della busta, giallo e blu cupo, e con al centro, ritagliata come a traforo, la sagoma dell’«arma scandalosa». Contava però soprattutto – ai fini dell’eventuale giallo come dell’eventuale letteratura – che la busta fosse sigillata e che dentro ci fosse un mistero da scoprire.