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 2025  marzo 21 Venerdì calendario

Intervista a Fausto Bertinotti

Oggi Fausto Bertinotti compie 85 anni e, se si volta a guardarli tutti insieme, in un’unica rapidissima sequenza, conclude il bilancio del tempo passato citando una frase di San Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede». Padre ferroviere socialista anarchico, madre casalinga, lui sindacalista alla periferia della classe operaia, settore tessile; poi segretario di Rifondazione comunista, movimentista No global, presidente della Camera, protagonista dell’ultima fiammata della sinistra più sinistra, ormai fuori dalla politica di professione dalla sconfitta elettorale del 2008, con La sinistra arcobaleno.
«No, non ho sofferto quando mi sono fatto da parte. La mia corsa da dirigente è finita quel giorno di aprile. C’è un tempo per guidare e un tempo per testimoniare. Ho fatto la mia parte in un ruolo, ora la faccio nell’altro». Il Venerdì lo incontra a casa sua, a Roma, alla ricerca del personale più che del politico. Ma, al termine di due ore di conversazione, si tende a credere che la figura pubblica, Bertinotti, sovrasti sempre l’uomo, Fausto.
«Per me tutto si è mosso come se fosse un’unica cosa, vita pubblica e vita privata». Nemmeno il dialogo con Massimo Fagioli, controverso psichiatra dell’analisi collettiva, ha la crepa di una questione personale. «Con lui ho parlato solo e soltanto di politica». Marito, padre di un figlio, nonno di quattro nipoti, ha suscitato l’entusiasmo delle piazze e il rancore fratricida, è stato oggetto di satira e volgarità. «Il cachemire? Mai comprato uno in vita mia». E dove sono le tre famose serigrafie di Andy Warhol con il faccione di Mao Tse Tung? «Messe all’asta un paio di mesi fa. Dati i tempi, anche a noi serviva qualche soldo». Valore? «Come ho sempre detto, smentendo le cifre astronomiche di cui si parlava, sono valutate tra 10 e 15 mila euro ciascuna».

Ottantacinque anni. Quando ha capito di essere invecchiato?
«Non c’è un momento spartiacque. Ma se devo dirla tutta: vecchio no, non mi sento ancora».
No?
«Non vorrei essere frainteso: è normale, alla mia età, avere degli acciacchi. Vedere amici, compagni e persone care andare via. Sono cose che ti scuotono. Ma ciò che mi tiene in vita, la mia fede, ciò che dà senso alla mia esistenza, che poi è il socialismo, l’idea dell’uomo liberato dall’alienazione, be’, quello è rimasto intatto, identico a quando avevo vent’anni. In questo senso, il tempo è passato senza farmi sentire vecchio».
Cosa l’ha spinta in politica?
«Genova 1960. Il Movimento sociale, che sosteneva il governo Tambroni, convocò un congresso nella città medaglia d’oro della Resistenza. Scoppiò la rivolta. Barricate, cariche, sparatorie. La protesta dilagò in tutto il Paese. Scesi in piazza a Milano. Benché fin lì avessi parlato di politica di rado, per lo più in casa con mio padre. Ma in quel momento fui risucchiato completamente dentro l’agone pubblico, con la sensazione di non poter fare altrimenti».
Perché?
«Perché la mia generazione l’esempio dei partigiani l’aveva davanti nella vita di ogni giorno. Non era retorica. Erano persone in carne e ossa. Li cercavamo per farci raccontare le loro storie. Io li registravo con il magnetofono. Era gente che aveva riscattato la vita dei tanti martiri che avevano resistito al fascismo. A volte, senza avere alcuna speranza. Profeti di un mondo nuovo, incarnavano ciò che volevamo essere. Perciò, l’appuntamento di quel congresso fu vissuto come un oltraggio. La chiamata a una nuova resistenza contro l’Italia che in un batter d’occhio aveva dimenticato il suo passato recente. Ma fu lì che incontrai per la prima volta l’altra compagna della mia vita, la classe operaia».
Cosa la colpì?
«Che era gente contro cui la polizia sparava in piazza. Gli ultimi operai uccisi sono del 1968, quando ad Avola morirono in due e cinquanta furono feriti. Negli anni 60 e 70, lo scontro faceva parte della fisiologia della battaglia politica. Botte, feriti, a volte morti. Scendevi in piazza sapendo che la polizia poteva farti del male, nonostante le organizzazioni del movimento operaio avessero scelto la non violenza».
A lei la polizia ha mai sparato in piazza?
«No, sono stato testimone di tante altre cose, ma questo no, non mi è mai successo».
Ma ha mai temuto per la sua incolumità?
«Tante volte. Ma probabilmente mai come durante il G8 di Genova nel 2001, quando la repressione fu così indiscriminata che poteva capitare a chiunque di venir manganellato senza ragione. Non c’era alcuna distinzione tra madri di famiglia, parlamentari, preti, giovani studenti, black bloc. Il peggio iniziò dopo la morte di Carlo Giuliani. Alla scuola Diaz furono compiute torture, impossibili da condannare solo perché in Italia il reato di tortura non è previsto dal nostro ordinamento».
Il giovane Bertinotti era a disagio per la erre moscia quando doveva parlare?
«No, non l’ho mai vissuto come un problema, nemmeno quando Tino Pace, leggendario sindacalista che aveva chiuso in fabbrica Valletta dopo l’attentato a Togliatti, mi mandò per la prima volta a fare un comizio il Primo maggio, con la banda che suonava l’Internazionale. E sa perché? Perché se tu vai a parlare a degli operai a cui vuoi bene, davanti ai cancelli di una fabbrica, oppure in un’affollata assemblea, gli operai capiscono innanzitutto che gli vuoi bene, poi pensano alle tue parole. Da giovane parlavo molto più difficile di oggi, ma contava la connessione sentimentale.
Se stabilisci quella, null’altro conta di più».
Come l’ha imparato?
«Rubando l’esperienza. La politica, checché se ne dica, non s’impara alle scuole di partito. Nessuno, nemmeno le tanto rimpiante Frattocchie, ti può insegnare a governare un’assemblea, gestire una piazza, guadagnare autorevolezza, se non ci sei dentro con tutto te stesso».
Non ha avuto maestri?
«Eccome se ne ho avuti. Ma non mi sono seduto al primo banco ad ascoltare le loro lezioni. Li ho scelti per affinità. Lelio Basso, Vittorio Foa. Giganti sulle spalle dei quali ho avuto la fortuna di sedere. Grazie a Basso sono diventato luxemburghiano, in un tempo in cui la sinistra operaia era così vasta da avere tante diramazioni quante erano le personalità più rilevanti. C’erano i leninisti, i trotzkisti. Io ero devoto a Rosa Luxemburg. Ma non era un rito cimiteriale, il nostro. Per me, per noi, quella era gente viva, persone con cui ci confrontavamo giorno e notte».
Ha provato l’odio di classe?
«C’è un equivoco enorme su questo concetto. Che cosa si odia quando si odia una classe? Non certo l’individuo. Non ho odiato il capo di fabbrica che sorvegliava gli operai quando a Mirafiori non potevano neanche andare a pisciare. Ho odiato la funzione che svolgeva. La compagine sociale per conto della quale la esercitava. Non la persona».
Almeno il ’68 – sesso libero, libertà dei costumi – l’ha distratta un po’?
«Facevo il sindacalista a Torino e per noi il ’68 si è compiuto nel ’69, con l’unione operai e studenti. Erano nati a Torino i Quaderni rossi di Renato Panzieri, officina di tutte le nuove eresie del movimento operaio, la fabbrica dell’operaismo. Il nostro Vietnam era Mirafiori. Il resto, confesso, mi ha toccato poco».
A Mirafiori, nel 1980, ci fu poi “la marcia dei 40 mila”, proprio contro i sindacati.
«La più dolorosa sconfitta della mia vita. Quel giorno parlai in assemblea di fronte a poco meno di un migliaio di persone. C’erano sindacalisti che piangevano, operai affranti, compagni smarriti. Fu difficile accettare che avevamo perso. Avevamo resistito con tutte le nostre forze alla restaurazione, ma non riuscimmo ad evitarla. Si chiudeva il ciclo di lotte operaie, se ne apriva un altro in cui la lotta di classe l’avrebbero fatta i proprietari contro i lavoratori. Mi sentii irreparabilmente vinto. Ma non rassegnato. Non avevo alcuna voglia di arrendermi».
Come si è sentito dopo la sconfitta del 2008?
«Ho sentito di essere arrivato al termine della mia corsa da dirigente politico. Penso che a una certa età, quando l’energia e la forza di guidare gli altri diminuiscono, tutti dovrebbero fare un passo indietro. La Chiesa in questo è maestra. Vescovi e cardinali a 75 anni rinunciano al proprio incarico, continuando a prestare servizio alla comunità. È quello che faccio anche io, con lo studio, la riflessione, l’analisi. Pure alla politica, credo, farebbe bene un limite d’età per i dirigenti».
Biden però ha lasciato a 82 anni, Trump è presidente a 78.
«Non ho mai creduto che la contemporaneità sia priva di sue speciali perversioni».

Rimpiange il passato?
«Ho nostalgia del tempo in cui ci chiedevano “cosa volete?” e noi rispondevamo: “Vogliamo tutto”. Il tempo in cui si è immaginato che gli ultimi potessero essere i primi e la liberazione dell’uomo era in cima all’agenda politica. Non condivido l’opinione corrente contro la nostalgia. È un sentimento ingiustamente demonizzato. Associato all’inazione, al ripiegamento in sé stessi, alla rinuncia del futuro, dell’immaginazione. Non è affatto così».
Perché no?
«Perché non è la storia ufficiale quella che ha veramente da insegnare qualcosa a chi viene dopo: è la storia dei vinti che contiene le lezioni più promettenti. Sono i vinti che depositano nel passato le proprie ambizioni non realizzate, i propri percorsi incompiuti, le visioni interrotte. Energie che in ogni momento possono essere tirate fuori dalla prigione del tempo e realizzate nel presente e nel futuro».
Ha mai pensato di aver sbagliato a far cadere Prodi?
«No. Sapevo che l’avrei pagata, quella decisione. Allora finirono amicizie, ruppi rapporti, anche se in gran parte recuperati nel tempo. Ma, a distanza di anni, in quella vicenda riconosco chiaramente un elemento psicopolitico».
E quale sarebbe?
«Il governo Prodi era vissuto dalla classe dirigente dell’Ulivo come salvifico. Si arrivò persino a sostenere che fosse il primo governo di centrosinistra della storia italiana – un palese falso. Tutto ciò mentre il centrosinistra, non solo italiano, si era trasformato nel principale sostegno politico alla globalizzazione capitalistica, interpretata come un grande fenomeno di modernizzazione. Un intreccio talmente incestuoso che quando la globalizzazione si è inceppata, il centrosinistra è crollato ovunque. Un errore storico».
Oggi, però, il leader dei No global è Donald Trump.
«Era prevedibile che, in assenza di uno sbocco a sinistra, dalla globalizzazione si sarebbe usciti a destra. Quello che era difficile prevedere è che la destra, accanto alla guerra commerciale e all’imperialismo, diventasse anche una forza del nichilismo: con il superamento della verità, la cancellazione della distinzione tra bene e male, persino Dio arruolato dalla propria parte per essere più crudeli nei confronti degli stranieri, dei diversi, dei poveri».
Cosa prova quando le dicono che incarna la sinistra col cashmere?
«Stupore. Mai comprato un cashmere in vita mia. Il maglione che diede origine alla leggenda, mia moglie lo aveva comprato per 25 euro in un mercatino dell’usato.
Ma sa una cosa? Da anni, l’accusa continua a essermi rivolta da gente di estrazione borghese, a volte progressista, altre volte conservatrice. Non ho mai sentito un operaio rimproverarmi per questo. Anzi».
Cosa significa invecchiare per lei?
«Ritrovarsi a pensare di più, e più spesso, a certe cose».
Alla morte?
«Anche. Eugenio Borgna la chiamava “l’ora che non ha più sorelle”
, un’ora diversa da tutte le altre vissute prima».
L’ora in cui si rimane definitivamente soli, dove non c’è più politica che tenga?
«Come facciamo a saperlo? A non avere più sorelle è l’ora, non necessariamente tu che l’attraversi. Nella mia vita i morti li ho avuti sempre accanto. C’ho discusso, mi sono confidato, gli ho chiesto consiglio. Al punto che certe volte mi domando: sarà davvero l’ultima, “l’ultima ora”?».
Non pensa che si muoia veramente?
«Chi può dirlo? Chi lo sa veramente? In fondo, è per questo che la morte m’incuriosisce tanto».
Cosa in particolare?
«Non mi spingerei più in là di così. La pubblicità corrompe i pensieri, quando di mezzo ci sono questioni tanto intime».