la Repubblica, 22 marzo 2025
Intervista a Beatrice Rana
Suono il pianoforte, non faccio nulla di rivoluzionario. Tante donne straordinariel’hanno fatto prima di me e continuano a farlo. Clara Schumann nell’Ottocento. Maria Tipo, scomparsa di recente. Martha Argerich tutt’oggi. Eppure, nelle interviste, ancora si batte su un medesimo tasto: cosa comporti per una giovane donna fare questo mestiere. Ma agli uomini perché non si chiede mai a cosa devono rinunciare nella vita per dedicarsi allo studio incessante e al continuo girare il mondo?». Non è il caso di questa intervista, comunque. E forse Beatrice Rana un po’ è grata che stavolta questa domanda non le sia posta. Lei, a 32 anni, già da tempo è una celebrità: pianista affermata, presente nei maggiori cartelloni internazionali, riferimento e modello per i più giovani. Sa quel che vuole, e comeottenerlo. Crea attorno a sé occasioni culturali, di riflessione. Come con il suo festival “Classiche forme”. Ieri è uscita la sua ultima registrazione per Warner Classics,Bach Keyboard Concertos. Sono quattro Concerti per tastiera e orchestra – quelli catalogati con la sigla BWV 1052, 1053, 1054, 1056 – concepiti da Bach, nel decennio 1730-40, per intrattenere gli avventori del Caffè Zimmermann di Lipsia. Con lei suona la Amsterdam Sinfonietta guidata dal primo violino Candida Thompson.
Perché continuare a proporre i pezzi clavicembalistici di Bach sul pianoforte, uno strumento che lui aveva incrociato forse soltanto una volta nella vita e nemmeno gli era piaciuto?
«Perché è un gran peccato essere pianisti e non poterlo suonare. Non è una mancanza di rispetto storico. Ma dal Settecento il mondo musicale è cambiato: ci presentiamo davanti a platee enormi, e questa musica pensata per spazi limitati va tradotta a uso del terzo millennio. È il motivo per cui non scanso Bach nei miei recital. Ho portato tanto in giro anche le sue monumentaliVariazioni Goldberg».
Con uno di questi Concerti, il BWV 1056, ha debuttato a 9 anni nella sua Lecce. Che ricordo?
«Fu un affare di famiglia, i miei genitori sono musicisti e mia zia suonava nell’orchestra. Oggi dico: beata incoscienza. Perché non mi rendevo conto di quel che facevo. Rammento solo che, da piccola, più gente vedevo in sala, più euforica ero».
Adesso è diverso?
«Nell’adolescenza si comincia ad acquisire consapevolezza che nel suonare ci troviamo faccia a faccia, più che con il pubblico, con noi stessi. Con la nostra potenza e la nostra fragilità».
C’è qualcosa che evita di suonare perché non le dà sicurezza?
«Mozart. Ne faccio soltanto i Concerti con orchestra, ma nulla per piano solo. Non è un autore così delicato come si crede. Il suo spirito teatrale mi frena».
In molti pensano che la classica sia difficile, elitaria. Lei sostiene che sia un pregiudizio.
«Pregiudizio frutto di ignoranza. A proposito dell’elitarismo c’è un dato storico: perlomeno fino a Beethoven, la musica cosiddetta classica nasce grazie al mecenatismo. È stata la ricchezza di pochi privilegiati a renderla possibile. Il che, tuttavia, non è molto differente da quando oggi una qualche maison di alta moda sponsorizza un cantante pop. Riguardo al pregiudizio, molto italiano: tutto dipende dalla nostra scuola. La musica è di fatto assente— perché l’eduzione musicale alla medie non è che un pannicello caldo. Far musica vuol dire prendere confidenza con l’alfabeto sonoro, praticarlo, altrimenti il suo linguaggio resta oscuro. Perciò poi ci si trova di fronte a un concerto come davanti a uno spettacolo in giapponese».
I social potrebbero aiutare?
«Io li uso per connettermi con le persone conosciute nei miei tour. X non più dacché, con Musk, ha preso una piega politica che non mi appartiene».
Si interessa di politica?
«La politica la faccio. Con il mio festival “Classiche forme”, che organizzo in luglio nel Salento, mi impegno, da cittadina, ad arricchire di cultura la terra in cui ho abitato fino ai diciotto anni. Per una settimana vi porto il meglio del mondo musicale internazionale, non è giusto che chi vive e studia lì non debba avere la possibilità diascoltare grande artisti».
Che speranza ha un ragazzo talentuoso del Sud, magari cresciuto in una realtà culturalmente depressa, di emergere in un mondo altamente competitivo come quello concertistico?
«Certo servirebbe la fortuna di nascere nel posto giusto. Ma oggi si può anche cercarlo grazie alla rete.
Quando, da ragazzina, internet non era così sviluppato, ascoltavo più cd che potevo. Così ho cominciato a guardare fuori dai confini del mio paesello. Anche se poi ho rinunciato alla Juilliard School di New York. Perché non tutto va bene pur di uscire: ognuno deve trovare il posto speciale adeguato a sé».
Tra qualche giorno i romani potranno riascoltarla a Santa Cecilia, casa sua ormai…
«Sono stata anche nominata accademica ceciliana. Di gran lunga la più giovane. E lo dico con dispiacere, perché il mondo musicale italiano non può essere rappresentato soltanto da grandi nomi tutti maturi. Torno a suonarvi, dal 27 al 29, con il Concerto di Ravel e il Concertino del francese Eric Montalbetti in omaggio alla memoria di Luciano Berio».
Sembra una donna tenace. È questo che l’ha fatta diventare una delle persone più influenti della musica italiana?
«Vengo da una famiglia matriarcale in cui sono stata tirata su senza guinzagli né reti. Lì ho imparato la libertà».