la Repubblica, 22 marzo 2025
Intervista a Eddy Merckx
Igiorni passano lenti a Meise, gli anni invece corrono veloci. Eddy Merckx taglierà il traguardo degli 80 il 17 giugno e sulla strada che separa la sua grande casa dalla chiesetta di Sint-Brixius è un continuo inseguirsi di cicloamatori che si fermano, osservano e tirano dritto. In questo sobborgo di Bruxelles il cielo azzurro inganna, c’è un freddo che taglia le mani. Il vecchio campione è nel suo ufficio, «sono qui con i miei trofei, con quelli che mi sono rimasti. Tutti, negli anni, hanno voluto un pezzo di Merckx e io sono stato generoso con tutti». La pietra-trofeo della Parigi-Roubaix regge lo stipite di una finestra semiaperta sul giardino. «Non mi perdo nessuna corsa in televisione. La settimana scorsa c’erano la Tirreno-Adriatico e la Parigi- Nizza, per fortuna non alla stessa ora». Il passo è incerto: una caduta dalla bici, a dicembre, gli ha frantumato un’anca. Gli occhi, però, fiammeggiano ancora.
Come sta, adesso?
«Sto facendo riabilitazione e spero di poter tornare in bici. Prima della caduta ci andavo due-tre volte a settimana, 60-70 km. Ho voglia di pedalare. Non di fare fatica, però».
Cos’è il tempo, qui a Meise?
«Le giornate sono lunghe, ma in questi giorni ho i miei due figli Sabrina e Axel qui. Le figlie di Axel sono in America. Il figlio di Sabrina, Luca Masso, il primo campione olimpico della famiglia (nell’hockey su prato) tornerà a giugno per i miei 80 anni».
Le sue 525 vittorie, come i 1281 gol di Pelé, sono qualcosa che non si ripeterà mai più. O no?
«I numeri sono semplicemente numeri. Per esempio, le 35 vittorie di tappa al Tour di Cavendish, una in più del mio vecchio record, restano un numero. E magari quel record presto lo batterà Pogacar».
Tadej Pogacar è il nuovo Merckx?
«È forte forte, ma non ha tanti avversari: raramente incontra i più forti alle gare. Vingegaard quest’anno sta soffrendo. Tadej sembra non fare fatica, si diverte, è sempre bello, non suda nemmeno, beato lui. Io facevo una fatica incredibile anche nei giorni belli. Il mio viso non mentiva mai».
Pogacar vincerà oggi la Milano-Sanremo?
«È l’uomo da battere, anche perché ha la maglia iridata. Però la Sanremo è difficile, devi indovinare l’attimo esatto, non sbagliare una pedalata».
Lei l’ha vinta sette volte: la sesta, cinquant’anni fa.
«Attaccammo sul Poggio in cinque: c’era anche Moser. Decisi di anticipare la volata, partendo lunghissimo. Ho vinto tutti i Grandi giri, tutte le Classiche, Mondiali, ma la Sanremo è stata la corsa della miavita, quella che mi ha dato più gioia vincere».
Ha scelto lei il ciclismo o il ciclismo ha scelto lei?
«Mio nonno era stato calciatore in seconda serie. Nessun ciclista in famiglia. I miei genitori avevano un negozio di generi alimentari a Woluwe-Saint-Pierre. Facevo le consegne in bicicletta, la passione è nata così. La prima bici vera a 12 anni, rossa. Avevo praticato boxe, basket, calcio. Mi lanciai in una corsa nel 1961 a Laeken, senza allenamento. Non la vinsi».
Chi era il suo idolo?
«Stan Ockers. Ero al mare a Blankenberge quando lui vinse il Mondiale di Frascati, nel 1955:seguii tutta la gara alla radio. Affittavamo un appartamento sopra una macelleria. Da dilettante avevo ricevuto una bici e una maglia della squadra di Van Steenbergen, poi passai professionista con Van Looy. Non ci siamo mai troppo amati, io e Rik. La rivalità con lui mi ha formato. Ho imparato molto in quegli anni. Soprattutto a correre sempre con il coltello tra i denti».
Il Merckx più forte dove l’abbiamo visto?
«Nella neve alle Tre Cime di Lavaredo, al Giro 1968. O in Messico, il giorno del record dell’ora nel 1972. La caduta in velodromo a Blois, nel 1969, mi ha però tolto tanto: avrei potuto vincere molto di più».
In quel 1969 fu estromesso dal Giro per doping. Quanto l’ha segnata quella vicenda?
«Quella sera avrei voluto lasciare il ciclismo, dedicarmi a tutt’altro. Il prodotto trovato, la Fencamfamina, ero lo stesso trovato nelle urine di Gimondi l’anno prima, a Napoli.
Avevo fatto nove controlli in quel Giro. Il nostro direttore sportivo fece fare la pipì a tutta la squadra in hotel, quella sera, la mandammo a far controllare, tutto regolare. Ma due o tre giorni prima mi avevano offerto soldi per lasciare il Giro: tanti soldi. Mi permisero di fare il Tour, a condizione che nelle prime otto tappe facessi un controllo al giorno. Lo vinsi».
Due anni prima Tom Simpson era morto sul Ventoux: si parlò per la prima volta apertamente e brutalmente di doping.
«Aveva una volontà tremenda, ma non si allenava bene e forse, allora, andò al di là del lecito. Ma ci furono tanti errori nei soccorsi».
Nel 1999 Pantani fu estromesso dal Giro per ematocrito alto.
«A Marco ho voluto bene, è stato il più grande scalatore di sempre. Ne avvertivo la profondità, la sensibilità estrema».
Lance Armstrong è stato un suo grande amico.
«Lo riportai io in bici dopo il tumore: quando ci incontrammo glividi il taglio sulla testa per l’operazione al cervello, era impressionante. Molte volte è venuto qui, a casa mia, con Sheryl Crow, la sua fidanzata di allora. È incredibile tutto quello che era riuscito a creare, la sistematicità del suo doping e il fatto che non sia mai stato trovato positivo».
Quanto è stata importante l’Italia nella sua carriera?
«Sono diventato Merckx perché ho corso in squadre italiane. Con la Faema e la Molteni ho fatto la vita da corridore, i ritiri, la cura dell’alimentazione. Che fa ridere se paragonata a quella di oggi: io mangiavo sandwich, formaggini, marmellata, zucchero, fette di mele, colazioni enormi. Giorgio Albani e Marino Vigna sono stati importantissimi, da direttori sportivi, per la mia crescita».
Chi è stato il suo più grande avversario?
«Felice Gimondi: il più costante, il più continuo, senza alti e bassi.
Ocaña aveva una grinta incredibile, ma aveva anche giornate pessime. Il suo Tour più bello, quello del 1971, finì con quella caduta nella discesa del Col de Menté. Il giorno dopo non indossai la maglia gialla per rispetto. Non la sentivo mia».
Il pugno da un tifoso sul Puy de Dôme, al Tour 1975, ha segnato il suo declino.
«I francesi avevano caricato quella giornata in modo esagerato e il pubblico si adeguò a quella follia.
Quel Tour lo vinse Thevenet.
Sarebbe stato il mio 6° successo, avrei superato il record di Anquetil e questo ai francesi dava fastidio».
Perché ha lasciato a 33 anni?
«Correvamo 180 giorni l’anno, il doppio di oggi. Me lo disse il corpo: “basta, ora dedicati ad altro”».
Si sente il più grande corridore di tutti i tempi?
«Non ha importanza. Quel che importa è essere il più grande della propria generazione, battere gli avversari che hai».
Il soprannome Cannibale le piaceva?
«Non mi è mai piaciuto. Gli italiani e i francesi mi chiamavano così. Un cannibale che fa? Mangia carne, bambini, persone? Io mi limitavo a correre e a vincere ogni volta che potevo».
La morte la spaventa?
«No, per niente. Sono molto credente. E sono certo di essere stato una brava persona. Mio padre mi diceva: “Non badare a quelli che vanno in Costa Azzurra in vacanza, ma a quelli che hanno di meno”. Ho avuto doti naturali speciali, ma ho sempre rispettato i miei avversari. E ho ricevuto rispetto. Ho sempre preferito parlare con le gambe che con la bocca. Questo vorrei che restasse di me».