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 2025  marzo 22 Sabato calendario

Intervista a Jacqueline Bisset

«Ma davvero è passato tutto quel tempo? Già 50 anni?». Davvero. La donna della domenica uscì al cinema nel 1975. E la sua interpretazione ricevette ovunque un consenso unanime. Per dire, il severo New York Times all’epoca scrisse: «Attrice di straordinaria bellezza e bravura, di norma mortificata in ruoli sciocchi, qui dà vita a un conflitto armato tra sentimenti reali e un decadente distacco, una tempesta in un calice di vino». Firmato: il premio Pulitzer Richard Eder.
Quando glielo si ricorda, Jacqueline Bisset sorride all’altro capo del telefono, dalla sua villa a Beverly Hills. «Gli anni sono volati, non riesco nemmeno a pensarci. Di recente ho rivisto Bullit con Steve McQueen e mi ha fatto impressione, ero una bambina».
E La donna della domenica?
«L’ho rivisto un annetto e mezzo fa. Mi avevano mandato il dvd e una sera l’ho messo su. Mi sono divertita».
Com’era entrata nel cast?
«L’anno prima avevo lavorato in Francia con Jean-Paul Belmondo in Come si distrugge la reputazione del più grande agente del mondo, e con Truffaut in Effetto notte. Qualcuno mi segnalò a Comencini, e lui a me».
Lo conosceva già?
«No. Mi fecero vedere il suo Pinocchio e ne restai incantata. Del regista mostrava una grande poesia e un animo fanciullesco. In più nel cast di La donna della domenica c’era già il mio miglior amico, Jean-Louis Trintignant. L’idea di poter lavorare con lui mi fece rompere gli ultimi indugi».
Ricorda il primo incontro con Comencini?
«Era molto diverso da come lo immaginavo. Era avanti con gli anni, serio, taciturno, piuttosto formale. Sulle prime è stato difficile entrare in sintonia».
E sul set?
«Era il primo regista italiano con cui lavoravo. Restai sorpresa che fosse così autoritario».
A Hollywood non capitava?
«Anche là i registi sanno essere duri, ma dopo aver messo l’attore in condizione di dare il meglio. Lì invece dovevo recitare in francese, che Comencini preferì all’inglese perché riteneva che avesse una gestualità più simile all’italiano. Mi diceva sempre: “Non ti preoccupare di quello che dici, tanto verrai doppiata”. Io però avevo bisogno di dare un senso alle parole del mio personaggio, non potevo limitarmi a muovere le labbra».
Se lei non parlava italiano e nessuno degli altri parlava inglese o francese, come vi capivate?
«Non ci capivamo. Ero l’unica straniera e mi sentivo molto isolata. Forse non bullizzata, di certo sotto una pressione costante. Presto iniziai a sentire nostalgia dei miei luoghi e delle persone con cui mi sentivo a mio agio».
Durante le riprese come faceva con le sue battute?
«Quando Mastroianni parlava non decifravo nulla, finché si bloccava di colpo e mi fissava. Lì capivo che aveva finito e attaccavo io».
Andavate d’accordo?
«Marcello era una persona amichevole ma non molto calda. Era però paziente. O meglio, aveva una leggera impazienza che sapeva sempre tenere sotto controllo».
Che ricordi ha di lui?
«Arrivava la mattina sul tardi, il viso stropicciato, l’aria stanchissima. Una sera mi invitò a uscire a cena con lui e la sua squadra trucco, e lì mi resi conto che quello era l’effetto della grappa, che beveva generosamente. A metà giornata spariva con truccatore e parrucchiere, dopo un paio d’ore riemergeva nel costume di scena ed era il Marcello che tutti conosciamo».
Come si è trovata in quel giallo sui generis tessuto da Fruttero & Lucentini?
«Non riuscivo a capirne la trama, avevo la sensazione che mi mancasse il quadro d’insieme. Dovetti aspettare di vedere il film perché quasi tutti i tasselli andassero al loro posto».
Quasi?
«A tutt’oggi continuo a non capire il perché di quei simboli fallici sparsi nel film, a cominciare dall’arma del delitto».
Dell’esperienza che cosa si porta dietro?
«La straordinaria bravura dei vostri artisti: scenografi, direttori della fotografia, truccatori, parrucchieri, sarti. Ti mettevi nelle loro mani e il personaggio prendeva vita, materialmente».
Torino come la ricorda?
«Ne ero profondamente affascinata. Aveva un’atmosfera unica, molto diversa da tutto quello che conoscevo dell’Italia fino a quel momento. Era elegante, formale, un po’ snob. E si mangiava in maniera incredibile. A cena ci portavano “Al gatto nero”, quello era il vero momento di gioia della mia giornata. Peccato solo che voi italiani senza sale non sappiate cucinare».
In che senso?
«Da sempre mangio insipido, altrimenti inizio a gonfiarmi.
Misi subito le cose in chiaro con Comencini e lui promise di occuparsene. Al momento delle ordinazioni lo faceva presente ai camerieri, solo che poi la pasta arrivava comunque salata. Il giorno successivo mi presentavo sul set con gli occhi gonfi e lui: “Jacqueline, oggi ti vedo diversa”».