il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2025
Nella clinica visitata da Al Kikli, altro libico nella lista nera Cpi
“Le polemiche sulla visita di Al Kikli? Non sono problemi nostri”, dice il fratello di Adel Jumaa Amer, il ministro di Stato libico per gli Affari del primo ministro e del gabinetto, ricoverato dal 14 febbraio all’European Hospital di Roma. Al suo fianco parenti, amici, collaboratori, guardaspalle. È sempre piena di libici, anche fuori dall’orario di visita, la stanza privata di lungodegenza al 4° piano della struttura. Jumaa è, per intenderci, l’omologo al governo di Tripoli del nostro Alfredo Mantovano: il numero 2 libico.
Giovedì è andato a fargli visita Abdul Ghani Al Kikli, detto “Gheniwa”, leader miliziano le cui truppe controllano il carcere di Abu Salim, uno dei luoghi delle terribili torture, degli omicidi e delle sparizioni di migranti denunciati dalle organizzazioni umanitarie. A rivelare la visita è stato ieri un tweet del dissidente libico, oggi in Svezia, Husam El Gomati, già noto alle cronache per aver denunciato di essere stato spiato dal software Graphite di Paragon Solutions.
Il nome di Al Kikli è al centro di una denuncia che l’Ecchr, il Centro europeo per i Diritti umani e costituzionali, basandosi su rapporti di Amnesty International, il 29 novembre 2022 ha inviato alla Corte Penale Internazionale. Al Kikli è dunque attenzionato dai giudici dell’Aia, ma nessun mandato d’arresto è stato spiccato a suo carico. Tradotto: può muoversi liberamente, anche in Italia. Quello di Al Kikli è un profilo che lo rende molto simile ad Almasri, l’altro carceriere libico arrestato in Italia a gennaio e subito rimpatriato. “Questo caso dimostra come l’Italia per i torturatori libici sia un porto sicuro”, dice Amnesty.
Il 12 febbraio il ministro Jumaa ha subito un attentato a Tripoli: un sicario ha trivellato la sua auto con 8 proiettili. Ne è uscito vivo per miracolo. “L’ambasciata libica in Italia gli ha consigliato di curarsi nel vostro Paese”, ci racconta uno dei fedelissimi del ministro nel corridoi dell’ospedale. Paese che Jumaa conosce bene avendo organizzato il Business Forum Italia-Libia il 28 e il 29 ottobre a Tripoli, al quale è intervenuta Giorgia Meloni.
Così il ministro arriva nella clinica privata romana della famiglia Garofalo. “Abbiamo una convenzione con l’ambasciata libica”, spiegano fonti del Fatto vicine alla proprietà. Per chi ci lavora, la presenza del ministro da oltre un mese è un fastidio. “Lo seguono ovunque, pure in sala operatoria, i libici stanno qui tutti i giorni, per ore”, raccontano gli infermieri. Jumaa a febbraio ha subito due operazioni: la rimozione dei proiettili e l’applicazione di placche di titanio e stent. Il 19 febbraio ha lasciato la terapia intensiva. Stanza privata, centinaia di euro al giorno. Paga l’ambasciata libica, dicono dalla struttura. Nei registri della clinica Adel Jumaa Amer si è trasformato in “Adelmo Amore”. Il quarto piano è presidiato da un poliziotto, su specifico ordine emesso dalla Questura di Roma.
Arrivati, bussiamo. Ci apre il suo fido Dagoor. Indossa ha una maglia della Juventus: non è l’unico di fede bianconera. Dagoor dice di essere il fratello di Jumaa (ma scopriremo che mente). “Sta bene, grazie a Dio, ma non ti vuole parlare”, dice. Al capezzale i protagonisti della foto di El Gomati, tranne Al Kikli, che è ripartito giovedì sera, al termine di una visita di due ore e mezza. Jumaa si affaccia, ci guarda. Poi si rivolge ai suoi: “Mandatelo via”, sembra dire. Mentre la polizia ci identifica, Dagoor però parla. “Al Kikli? Non so. Politici italiani? Non si sono visti”, assicura. E poi ammette: “La foto? Sì sì, l’abbiamo scattata ieri (giovedì)”. “Mister Al Kikli è andato via ieri sera” assicura Ammar Jomaa, lui davvero fratello del ministro, mentre beve un caffè al bar della clinica. Comunichiamo con Google Translate. Poi gli facciamo vedere la foto pubblicata da El Gomati: “Photoshop!”, esclama, prima di fuggire via. Per El Gomati, contattato dal Fatto, quella di Al Kikli è stata “una prova di forza”. L’Italia è stato un “porto sicuro”.