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 2025  marzo 22 Sabato calendario

Sull’Italia piovono in media 260 miliardi di metri cubi all’anno e l’agricoltura riesce a sfruttarne dai sei agli otto miliardi

Sull’Italia piovono in media 260 miliardi di metri cubi all’anno e l’agricoltura riesce a sfruttarne dai sei agli otto miliardi. L’uso civile della risorsa idrica, cui la legge Galli riconosce l’assoluta priorità, riesce a captare e a distribuire annualmente nove miliardi di metri cubi. Si potrebbero dimezzare se si riutilizzassero completamente le acque reflue: il contributo potenziale offerto dal riutilizzo si colloca tra il 38% ed il 53% del fabbisogno irriguo nazionale. Una prospettiva su cui conviene lavorare sodo, visto che il cambiamento climatico ci espone al rischio di altri 2022. Quell’anno, a livello nazionale, la disponibilità idrica è crollata del 52% rispetto alla media del periodo 1951-2022.
La questione siccità
Mentre l’agricoltura è alimentata dalle acque meteoriche, dai pozzi e soprattutto dai fiumi che ricevono acqua dai nevai, gli acquedotti attingono la risorsa dalle acque superficiali (invasi e fiumi) e dai pozzi. La siccità comporta una drastica riduzione di entrambe le riserve. Ad esempio, da maggio del 2023 a maggio del 2024, la capacità idrica degli invasi principali del distretto Appennino Meridionale ha subìto una contrazione compresa tra -17% e -45% a seconda delle zone. In Sicilia, la regione più colpita, il volume invasato è crollato del 40%, mentre le piogge in talune zone calavano del 60% in un anno. E non è stato neanche il periodo peggiore: la siccità nel 2022 ha colpito il Nord Italia, facendo scendere la disponibilità del 50% rispetto alla media 1951-2022. Quando questo fenomeno si concentra sul Mezzogiorno, i toni sono drammatici, perché in quell’area le infrastrutture sono più vulnerabili e la percentuale media di perdite di rete è più alta: le perdite in Sicilia si attestano a 51,6%, laddove la media nazionale è 42%.
La gestione
Ma esiste anche un problema di frammentazione gestionale: sull’isola solo in 135 comuni (53% della popolazione regionale) il servizio idrico è integrato, cioè gestisce contemporaneamente acquedotti, fognature e depuratori, ed è gestito da un unico operatore; in 251 (43%) è gestito in economia e in 5 (4%) si sovrappongono gestioni differenti. Utilitalia, che riunisce le aziende del settore, parla di «criticità nella governance degli ambiti territoriali di Messina e Trapani»; a Siracusa, invece, l’ambito (2000 km di rete idrica, 1300 di fogne e 166 utenze) sarà affidato ad Acea. Utilitalia insiste che «la gran parte del Sud sconta 20-30 anni di ritardo rispetto al Nord, dove la legge Galli del 1994 è stata via via applicata nella quasi totalità delle regioni» e «l’approccio industriale resta la strada obbligata». Ma cosa significa esattamente? Secondo Utilitalia «indipendentemente dalla forma societaria, che può essere totalmente pubblica, misto pubblico-privata o totalmente privata (in Italia solo il 2% della popolazione è servita da società interamente private), ciò che conta è la dimensione industriale dell’impresa che, operando su ambiti territoriali ampi e non frammentati, deve essere in grado di realizzare investimenti importanti come grandi adduzioni e interconnessioni tra le fonti, di applicare tecnologie sempre più complesse e di dotarsi di competenze professionali adeguate. Tutto ciò non è compatibile con le gestioni “in economia”, dove i Comuni si occupano ancora in parte o interamente del ciclo idrico integrato».
Il referendum 2011
Investimenti e tariffe
Questi investimenti debbono tener conto anche dell’esito del referendum del 2011: con quel voto 26 milioni di italiani sancirono che sull’acqua non si debba fare profitto; infatti, fu abrogata parzialmente una norma relativa alla tariffa dell’acqua che prevedeva l’“adeguata remunerazione del capitale investito”. I referendari sostengono che quel voto è stato tradito, in quanto le tariffe hanno continuato a crescere, gli utili sono stati sempre distribuiti e nei bilanci delle multiutility quotate in Borsa tra il 2010 e il 2016 si è passati dal 58% dell’impatto degli investimenti sul margine operativo lordo al 40%. «Dal 2012 – precisa Utilitalia – il servizio idrico integrato è sottoposto a regolazione dell’Arera, che indica i criteri di determinazione delle tariffe rispetto agi standard qualitativi, al recupero dei costi che devono essere efficientati e al finanziamento degli investimenti, solo a fronte della loro effettiva realizzazione. Le dinamiche tariffarie, quindi, dipendono principalmente dalla realizzazione degli investimenti, sia per manutenzioni straordinarie sia per la realizzazione di nuovi impianti. Per anni la leva tariffaria ha rappresentato la quasi esclusiva fonte di finanziamento del settore ed è ancora quella principale. Allo sforzo compiuto in questi anni, soprattutto per recuperare il gap accumulato nei decenni passati, va affiancata un’ulteriore accelerata per rispondere alle sfide del cambiamento climatico e alle crescenti necessità di tutela della salute e dell’ambiente».
Secondo la Fondazione Utilitatis, che edita il Blue Book, «nel corso degli ultimi anni si è assistito ad una crescita delle tariffe del servizio idrico di circa +5% annuo, anche se quelle italiane rimangono tra le più basse d’Europa». Quanto agli investimenti, dal 2012 al 2023 sono aumentati del 230%, raggiungendo i 4 miliardi annui e i 65 euro per abitante, dato che dovrebbe salire quest’anno a 80 euro. Resta ampio, tuttavia, il gap con la media europea, pari a 82 euro annui per abitante; nei territori dove non operano soggetti industriali, ossia nelle gestioni in economia, che interessano ancora 1.465 Comuni e 7,6 milioni di cittadini (di cui il 93% al Sud), si continuano a investire mediamente solo 11 euro l’anno. Da anni, i gestori premono perché l’Italia investa 6 miliardi all’anno ma il cambiamento climatico sta complicando le cose. «Solo un’azione di sostegno pubblico di lungo periodo – dice Utilitalia – può consentire di realizzare gli investimenti necessari come quelli indicati dal Piano nazionale di interventi infrastrutturali per la sicurezza del settore idrico (Pnissi); stimiamo necessario un finanziamento pubblico stabile di almeno 1 miliardo di euro annui per i prossimi dieci anni. È chiaro, infatti, che le opere necessarie a tutto il sistema idrico nazionale non possono essere unicamente a carico delle tariffe». Se si vuole raggiungere il valore target dell’Europa, che sono 100 euro di investimento ad abitante, «serviranno risorse aggiuntive pari a circa 0,9 miliardi di euro l’anno fino al 2026, e pari ad almeno 2 miliardi di euro l’anno dopo la chiusura del Pnrr».