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 2025  marzo 21 Venerdì calendario

Intervista a Richard Osman

«Ogni tanto, mentre rileggo ciò che scrivo, piango». Perché? «Perché tutti i personaggi sono miei amici, a loro voglio bene. Piango quando mi raccontano il loro dolore, le perdite, le amicizie svanite. Non accadeva in tv. Un romanzo è meglio dello psichiatra». Perché Dio sa che non dovremmo mai vergognarci delle nostre lacrime, secondo Charles Dickens. Eppure Richard Osman da sempre fa ridere e divertire in tv, da star e presentatore della Bbc. Poi, nel 2020, è passato alla crime novel, diventando scrittore bestseller da milioni di copie: i suoi gialli della saga Il Club dei delitti del giovedì, con detective protagonisti quattro vecchietti in ospizio, sono sempre intrisi di irresistibile humour britannico. Tra qualche mese sbarcheranno anche su Netflix, prodotti da Steven Spielberg, diretti da Chris Columbus e con un cast da paura: Helen Mirren, Pierce Brosnan, Ben Kingsley e Celia Imrie. «Ma non ho ancora visto la serie». Ora Osman, colosso di 2,01 metri e occhiali spessi che incontriamo nella sua Chiswick a Londra, si è preso una breve pausa dal Club del giovedì e ha scolpito un romanzo alternativo di misteri, assassini e umorismo british: Risolviamo Omicidi (Feltrinelli). Un altro irresistibile giallo, ambientato tra Inghilterra e South Carolina, in cui la guardia del corpo britannica Amy Wheeler, dopo l’omicidio di un influencer, viene risucchiata in un intrigo internazionale con il padre ex detective Steve, con il quale si ricongiunge.
Osman, suo papà invece l’ha abbandonata da bambino.
«Ogni autore, mentre scrive, riattraversa tutta la sua vita. Mio padre scappò quando avevo nove anni».
L’ha più rivisto?
«Si, circa 25 anni dopo. Avevo avuto i miei due figli, e ho voluto cercarlo».
E poi cos’è successo?
«È morto l’anno scorso. Prima avevamo trovato un equilibrio. Da giovane mio padre sbagliò. Ma sono una persona empatica. Ho 54 anni oramai, la rabbia è svanita col tempo e credevo potesse essere benefico ritrovare papà».
Così l’ha cresciuta sua madre?
«Sì. Un amore incondizionato, anche dal resto della famiglia».
E iniziò a guardare un sacco di televisione?
«Esatto. Grazie alla tv ho sviluppato la mia enorme passione per la cultura popolare. Quando scrivo, la mia ossessione è soddisfare il lettore comune. Preservando quel senso di comunità forgiato dallo humour inglese e raccontando il bene e il male della Englishness».
È un’altra ragione per cui vende tanto?
«Non lo faccio per opportunismo. Sono cresciuto così. In genere non pianifico i miei romanzi, a parte qualche post-it. Pagina bianca, lascio fare i personaggi nella mia mente e cerco di entusiasmare me e soprattutto il lettore. Ma la mia vista è sempre stata pessima, sin da bambino».
Le crea molti problemi?
«Per me il mondo è tutto sfocato. Non posso guidare. Sono un disastro in qualsiasi sport. In strada non riconosco i volti. Ma quando scrivo, mi avvicino molto al computer e me la cavo. Vedo meglio le immagini su uno schermo».
Anche per questo la televisione l’ha cresciuta?
«Assolutamente sì. È sempre stata la mia finestra sul mondo, perché in tv riuscivo a ammirare finalmente i volti delle persone. Potevo avvicinarmi a loro senza disturbarli, e così gli uccelli sugli alberi. Senza la televisione non avrei mai conosciuto la vita».
“Attraverso la finestra aperta giungeva mormorando la voce della bellezza del mondo”. Virginia Woolf.
«Esatto. Non sono mai stato un viaggiatore. Anche per questo ora ho deciso di ambientare “Risolviamo omicidi” in America».
Anche la tv tradizionale però sta cambiando molto, tra streaming e social. Il suo ruolo istituzionale e popolare è al tramonto?
«Come senso di comunità, sì. Ma non disperiamo: certi programmi tv fanno ancora 10 milioni di spettatori. Sono stato fortunato ad arrivare alla Bbc: altri amici, working class come me, non ce l’hanno fatta. Oggi, invece, con i cellulari chiunque può fare televisione e questa per i giovani è una opportunità straordinaria. Sono fiero delle mie origini operaie. Ma a tutti gli operai piace fare soldi».
Non crede che la nostra società si “parcellizzi” in questo modo?
«Vero. Anni fa pensavo che ci saremmo convertiti a guardare video di 15 secondi. Invece, oggi i podcast lunghi sono un successo, come le interviste di tre ore di Joe Rogan in America, virali anche tra i teenager. La maggioranza delle persone di questo mondo vuole ancora imparare, approfondire e informarsi».
Quando ha deciso di diventare scrittore?
«Ho sempre voluto farlo. Ma buttare giù un romanzo è la cosa più difficile di tutte: in tv lavori in un team, per il tuo libro invece sei da solo. Anni fa andai a trovare mia madre nella sua casa di riposo fuori Brighton, ed ebbi un’illuminazione: è la scena perfetta per un omicidio, con i vecchietti che diventano investigatori».
Eureka.
«Mi sembrò di essere in un libro di Agatha Christie. Ho pensato a Lee Child, a Val McDermid, e poi a me: sì, scriverò subito un giallo. Anche perché è il genere più attraente».
Perché?
«Perché è un contratto con i lettori. È rassicurante. Nella prima pagina c’è un omicidio. All’ultima si scopre il colpevole. Nel frattempo, raccontiamo il mondo».