la Repubblica, 21 marzo 2025
Intervista a Roberto Bolle
Scusate, ma quando entra in casa mia di colpo mi gira la testa: bello, troppo bello, addirittura bello e buono, perché io uno così non l’ho mai visto. Mi vengono in mente gli uomini, pochi, che hanno creduto di volermi bene e che (tranne uno) ho quasi dimenticato: anche qualcuno bello ma nessuno come lui. Lo guardi come se fosse una statua. Ti ricordi di quando, anni fa, quanti non so, tu mi hai mollato un bacio? Era un Capodanno, nella meravigliosa Vigna di Leonardo, un luogo magico in una via centrale di Milano, in cui l’antica casa nasconde un giardino di silenzio come se fosse un altro mondo. Apparteneva ancora ai vecchi proprietari, immenso dono di Ludovico il Moro a Leonardo che stava lavorando all’ Ultima cena. Uno dei proprietari di allora, Piero Maranghi, raccolse il mio invito e mi promise che quel bacio me lo sarei portato a casa. A mezzanotte in punto il bacio, quasi dimenticato, arrivò: Roberto Bolle, in tutta la sua bellezza, mi aveva davvero baciato! E quel bacio fuggevole me lo sono tenuto sino a oggi.
Sembra impossibile ma tu tra qualche giorno, il 26 marzo, avrai 50 anni! Non riesco ad applicarlo a te, non puoi avere 50 anni. Scusa se mi permetto, ma tu sei una rosa, pardon. Mi pare che a 47 anni i ballerini vadano in pensione, le donne anche prima. Non ti fa paura dover smettere di danzare?
«Da un po’ di anni ho iniziato una serie di altre iniziative che non sono strettamente legate all’essere ballerino. Sicuramente continuerò a portarle avanti a cominciare da OnDance, che è la festa della danza. E poi ho fatto tanti programmi televisivi. Il prossimo sarà il 29 aprile, in occasione della Giornata mondiale della danza: tornerò su Rai 1 in prima serata, con Viva la danza. Se in futuro ne avrò ancora la possibilità, sarò felice di proseguire. Tutti questi progetti sono legati alla divulgazione della danza, ai suoi valori, a quello che ho costruito, per cui ho lavorato e sono riuscito a entrare nel cuore e nelle case delle persone».
Sei disposto anche a non ballare più? È difficile…
«Però sì, io non mi vedo ballare sempre e comunque. Credo che ci sia un tempo per ogni cosa. Per quanto sia difficile non ballare più, e un po’ ballerò sempre, è importante valorizzare i giovani, chi può emergere. Mi piace portare avanti nuovi talenti, è quello che cerco di fare anche nelle mie diverse attività».
Si soffre molto a fare il ballerino?
«Tanto. Per il fisico è sicuramente un lavoro usurante».
E ballando, anche 10 anni fa, cos’è che ti stancava di più?
«Per tanti salti molto impegnativi ci vuole una grande preparazione. In generale però in tutto l’allenamento, dalla sbarra fino alla lezione, giorno dopo giorno ti confronti con i tuoi limiti, devi cercare di superarli. E comunque il dolore è una costante».
Cioè il ballerino ha sempre un dolore. E perché lo sopporta?
«Perché alla fine la bellezza della danza, quello che riesce a darti, ti fa sopportare anche il dolore. Che negli anni, tra l’altro, aumenta.
Alcuni giorni magari è più ai piedi, altri alla schiena…».
Ma scusa, quando tu hai cominciato da piccolino…
«Allora no, non c’era il dolore (ride, ndr)».
… Perché sei andato alla Scala?
Volevi fare proprio questo mestiere?
«Ho iniziato in Piemonte, prima a Trino Vercellese poi a Vercelli, grazie a una compagna di giochi che andava a lezione e mi ha incuriosito. In realtà non mi è piaciuto subito perché era un balletto classico e allora mi divertiva danzare in maniera più scatenata, come può farlo un ragazzino di 7 anni. Piano piano, però, sono entrato nella mentalità della danza accademica, più rigida. C’è voluto del tempo, non è stato un amore a prima vista. Certo, ero portato, avevo delle doti, quindi mi sono esercitato 5 anni prima di arrivare a Milano, a 12».
E quando sei entrato alla scuola della Scala, sono stati i tuoi genitori che ti hanno mandato?
Hanno capito che avevi voglia di ballare.
«Di andare a Milano, in realtà, non tanto perché per me è stato difficile lasciare casa e staccarmi dalla famiglia. Cosa facevano? Mio padre aveva una carrozzeria, mia madre lavorava in casa e un po’ lo aiutava con la contabilità. Hanno avuto una grande apertura per l’epoca, per non essere artisti, e vivendo comunque in provincia».
Quando hai cominciato pensavi che saresti diventato un grande ballerino?
«Assolutamente no. Mi piaceva l’idea di andare su un palco, per quanto fossi estremamente timido. Da bambino ero molto introverso, stavo sempre da solo. Il dovermi mettere sotto i riflettori mi ha creato disagio. Ma è servito per vincerlo, perché mi sono dovuto obbligare tante volte a essere al centro della scena. Parlare è stata un’altra barriera. Quando sono arrivate la tv, le interviste, dovevo comunicare in modo diverso e quella è un’abilità per cui non avevo neanche studiato. È stato ancora più difficile, mi sentivo inadeguato».