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 2025  marzo 21 Venerdì calendario

Daniel Craig: «Dopo aver interpretato James Bond ho iniziato a nascondermi. Guadagnino mi ha spinto verso una nuova libertà»

La censura potrebbe arrivare a fine mese. La commissione si riunirà per stabilire se Queer vada vietato ai minori e la previsione di Luca Guadagnino è che succederà: «Ovviamente non taglierò nemmeno un’inquadratura. A diciassette anni ho visto Velluto blu al cinema, a Palermo. Ci ero andato appena uscito, un venerdì credo. Mi aveva scioccato, la mia vita era cambiata per sempre eccetera. L’indomani ero tornato e mi avevano bloccato. Come! Se sono stato qui ieri! Ma nel frattempo era arrivato l’adesivo “V. M. di anni diciotto”. Sono riuscito a rivederlo solo anni dopo, quando è uscito in vhs».
Queer è la trasposizione cinematografica del romanzo più maledetto di William Burroughs. Scritto negli anni Cinquanta, subito dopo l’esordio Junky e con il medesimo personaggio al centro, William Lee. Il libro era rimasto incompiuto e Burroughs ne aveva impedito la pubblicazione fino a metà degli anni Ottanta. Nell’introduzione che ha aggiunto a quel punto lo descrive come il racconto di un «allucinato mese di feroce astinenza»: «Junky l’ho scritto io, ma in Queer ho la sensazione di essere stato scritto». Dietro le pagine del libro si nascondevano un delitto – Burroughs uccise la moglie Joan Vollmer con un colpo di pistola accidentale e per questo fuggì a Città del Messico – e la relazione con un uomo, Lewis Marker.
In Queer, proprio come Burroughs, William Lee vaga per Mexico City, da un locale all’altro, «disintegrato, disperatamente bisognoso di contatto, del tutto insicuro di sé e dei propri obiettivi». Fino a quando incontra Eugene Allerton e, in un certo modo ossessivo, se ne innamora.
Daniel Craig: «Ho incontrato molti William Lee nella mia vita. Persone con cui è meraviglioso trascorrere del tempo, purché sia un tempo limitato. Lee è autodistruttivo e al tempo stesso è troppo egocentrico per portare a termine l’autodistruzione. Ed è estremamente sensibile, sull’arte, sulla letteratura, soprattutto sull’amore. L’innamoramento è la sua droga definitiva. Probabilmente sto parlando di Lee e Burroughs insieme».
Luca: «Lee è scandaloso per la sua inarrestabile pulsione verso il desiderio, una pulsione senza alcun filtro o infingimento. Burroughs stesso ha lasciato questo suo alter ego ai margini della letteratura, lo ha nascosto per trentacinque anni per non affrontarlo».
Guadagnino ha letto il romanzo da giovane, nello stesso periodo in cui vedeva Velluto blu al cinema. L’adolescenza ricorre nei suoi progetti, sia come tempo a cui tornare – Chiamami col tuo nome, Suspiria – sia come serbatoio di letture seminali (Camere separate, I Buddenbrook).
«Il piano della mia opera – o il piano industriale, se preferisci – esiste tutto nello spazio che va fra i nove e i diciotto anni. Ciò che è accaduto dopo è stata una messa in opera di quel piano».
Nulla di quello che accade dopo l’adolescenza ha la stessa intensità?
«Il cinema è ancora bruciante e presente. Ma leggere Queer a diciassette anni, non capirci nulla eppure intuire tantissimo, ha provocato un’accensione dell’immaginario che con le sovrastrutture dell’adulto non sarebbe possibile. Non sarebbe più così... vibrante».
Chiedo a Daniel se anche lui abbia ritrovato nel film tracce dei suoi diciassette anni.
Daniel: «Ho conosciuto quelle sensazioni. Nella relazione fra Lee e Allerton, Lee è il più vecchio ma lo è solo anagraficamente, in realtà è un adolescente. Continua a sbagliare, a sbagliarsi. Ed è molto goffo. Tutto questo mi ricorda la mia giovinezza.»
Al centro del film, più ancora che nel libro, c’è il concetto di «disincarnazione». Nella battuta che racchiude il senso del racconto, Allerton dice a Lee: «Io non sono queer. Sono disincarnato».
Luca: «Allerton è incapace di far coincidere il proprio corpo con il proprio desiderio, la sua natura con la sua identità pubblica. È una tragedia».
Ti sei mai sentito così?
«Mai! Io sono noioso e costante. Come mi vedi oggi, ero e sarò».

Eppure non riesco a togliermi dalla testa che, raccontando William Lee, Luca Guadagnino abbia raccontato delle parti molto sincere di sé. E verso la fine del film anche Lee si ritrova «disincarnato». Il suo corpo ruota nel vuoto, fra le stelle, in assenza di gravità. Insisto: nemmeno il successo, l’esposizione, la ripetizione gli hanno fatto sentire quel genere di distacco?
«Mai! Il cinema mi ha soddisfatto, costretto al lavoro e a un’opera costante di convincimento degli altri. Ma mai disincarnato».
Ci rinuncio, mi rivolgo a Daniel, che come attore ha conosciuto un successo fuori scala.
Daniel: «La fama è disincarnante. Anche perché nessuno t’insegna come essere famoso. A meno che tu non abbia dei genitori che lo sono, ma in quel caso sappiamo che è perfino peggio... La fama è una forma di follia, devi esserne consapevole. In questo mondo dove i social media possono renderti celebre molto facilmente le persone impazziscono. Ma recitare può essere al tempo stesso un antidoto, un modo per restare collegato a te stesso e alle persone che hai attorno».
A che età hai imparato a gestire le transizioni tra fama e quotidianità, tra recitare ed essere autentico?
«Non so se l’ho imparato. Come hai detto, nel mio caso è stato abbastanza estremo, con James Bond eccetera. All’inizio mi nascondevo, non volevo frequentare le persone, non sapevo più come stare nel mondo. Può sembrare un problema da privilegiati, ma perdi una parte della tua vita. Per fortuna è subentrato un istinto di sopravvivenza».
William Lee è anche un performer, un narratore di aneddoti, istrionico. Burroughs afferma che, in Allerton, Lee cerca un pubblico devoto più ancora che un amante. Chiedo a Daniel Craig se in una serata tra amici l’intrattenitore sia lui.
«No. Preferisco l’uguaglianza. Non mi piacciono gli uomini bianchi di mezz’età che si prendono troppo spazio. Ne abbiamo già abbastanza in circolazione».
A proposito di cercare un pubblico, Queer non è un film che vada incontro allo spettatore in modo semplice. Il personaggio di Lee è affascinante ma anche respingente. Occorre abbandonarsi al ritmo erratico del racconto, i movimenti interiori non sono espliciti e c’è un brusco cambio di registro dalla metà in poi, quando inizia il viaggio di Lee e Allerton in Sud America, alla ricerca della sostanza psicotropa che li porterà, forse, a raggiungere la comunicazione profonda che desiderano.
Luca: «Il fatto che il film Queer esista è un miracolo. Desideravo farlo da vent’anni, Justin Kuritzkes (lo stesso di Challengers) ha scritto la sceneggiatura e sei mesi dopo eravamo sul set. Ma è un film che non ha nessun interesse nell’adattare il libro di Burroughs alla cultura cinematografica dell’oggi».
Nel senso che è perturbante. E forse il perturbante è un po’ passé...
Luca: «C’è qualcosa di bello che non sia passé?»
Daniel: «Queer non è condiscendente. Tratta il pubblico da adulto».
Il termine «queer» è stato ammansito dai tempi di Burroughs a oggi, assorbito nella tassonomia delle identità, privato della sua carica sovversiva.
Luca: «Il problema della parola queer, oggi, è che se tutto è queer nulla lo è veramente. Ciò non toglie che bisogna ancora approcciarsi al queer come alla possibilità di una differenza estrema, di un radicalismo del sé. William Lee è un flâneur, un tossicomane, un innamorato. Ed è inarrestabile nella sua ricerca di contatto. C’è un tale eccesso di sentimento in lui. Questo eccesso corrisponde all’intenzione del titolo di Burroughs. Negli anni Cinquanta non esisteva un concetto classificatorio delle identità. La classificazione è il modo per perpetuare la repressione. Sia l’autorepressione, che è quella che m’interessa di più, sia la repressione esterna».
In che punto dell’ideazione William Lee è diventato Daniel Craig?
Luca: «Ho mandato il copione al mio agente americano, che mi ha detto: perché non Daniel Craig? Gli ho risposto: è perfetto ma non lo farà mai. Abbiamo mandato il copione a Daniel e una settimana dopo ha detto sì. Questa è Hollywood».
Chiedo a Daniel che ricordo gli è rimasto del set.
Daniel: «Era un set italiano! Lo dico nel miglior senso possibile. Io sono inglese, sono rigido, ma la rigidità è impossibile su un set di Luca. Anche perché non sei mai da solo. Ci sono almeno cinque visitatori ogni giorno, sconosciuti, lui ti chiama e te li presenta tutti. Allora mi comportavo un po’ come Lee, con la stessa espansività. Mi ha aiutato a sciogliermi. La parte era difficile da recitare, estenuante, ma mi sono goduto ogni momento».
Il Messico del film è stato ricostruito a Cinecittà dallo scenografo Stefano Baisi, al suo esordio. Ed è chiaro, guardando Queer, che non ci sia stata alcuna ricerca di realismo. Il Messico del film è interiore, pittorico. Luca mi spiega che con Baisi hanno discusso molto di Francis Alÿs, pittore belga che vive da tempo in Messico, e di Michaël Borremans, fiammingo anche lui.
Luca: «Borremans recita anche nel film. È un pittore dell’inconscio, un artista in cui ti sembra di riconoscere qualcosa di famigliare che invece non lo è. Ha a che fare con la luce».
Questo è un buon momento storico per essere un artista?
«È sempre un buon momento per essere un artista. Specialmente di fronte al conformismo imperante.
Ti stimola a non esserlo. La mediocrità degli altri è sempre uno stimolo per me».
Ed è un buon momento storico per essere un attore?
Daniel: «C’è moltissimo contenuto, è difficile orientarsi. Io per esempio non so mai cosa guardare su Netflix nonostante lavori nell’industria cinematografica. Ma c’è anche un movimento di liberazione del cinema. Ho amato i film che sono usciti quest’anno. In particolare Anora, spero che vincerà» (ha vinto).
Cosa ti porti dietro di William Lee?
Daniel: «Luca è malizioso. E la sua malizia serve a farti fare delle cose. Mi ha spinto verso una libertà che sapevo di avere ma che è venuta fuori per la prima volta. La porterò con me nei prossimi lavori».
E tu, Luca, niente insoddisfazioni come quelle di William Lee?
«Quando ho realizzato The Protagonists (il primo lungometraggio, del 1999) avevo già in testa il piano che sto mettendo in atto. Non ero insoddisfatto di non poter realizzare Queer subito. Sapevo che il momento sarebbe arrivato».
Non stavo più parlando di cinematografia...
«Ma il cinema è la vita! I registi che amo hanno sempre professato che il cinema è la vita. Oggi non sembra essere più così. Ma per me sì».
Alla fine della vita, William Lee-Burroughs non ripensa alla scrittura e nemmeno al sesso. Pensa a un gesto marginale di tenerezza che ha vissuto con Allerton: il polpaccio del ragazzo appoggiato sopra il suo in una notte febbrile di astinenza.
«Dopo tutte le scopate che puoi fare con una persona, resta il momento in cui ti abbracci, il calore di uno che si diffonde nell’altro. La gamba sulla gamba è il momento di massima fusione. Burroughs scrive: Lee rimase immobile affinché non si spostasse, svegliandosi».