Corriere della Sera, 21 marzo 2025
Intervista a Valeria Bruni Tedeschi
Una Valeria Bruni Tedeschi come non abbiamo mai visto, non parla di sé e della sua famiglia, nulla a che vedere con i suoi personaggi pieni di disperata vitalità. Parliamo di L’Attachement, atteso a Roma il 3 aprile alla rassegna di cinema francese Rendez-vous.
Che storia è?
«C’è un uomo che perde sua moglie durante il parto, resta con una neonata e il figlioletto che lei aveva avuto da una relazione precedente. E viene aiutato dalla sua vicina di casa. Che sono io».
Che donna è?
«Una di quelle donne che vorremmo avere tutti come amica, ma lei non si ama. Però nel finale, quando chiede di vedere i bambini, capiamo che finalmente si vuol bene, il suo cuore si apre, è pronta ad amare. È interessante vederla così, è una donna che si è creata una corazza per vivere senza soffrire. È anche un film sulla maternità mancata».
Perché non si ama?
«Perché sua madre non l’ha amata, vive una specie di piccola vita anestetizzata. Non è infelice, ha qualcosa di generoso, non cerca di ottenere cose dagli altri. Lentamente, la corazza cade. Non so se ama se stessa ma riesce ad amare».
È un ruolo inedito per lei.
«Perché ha una passività a me sconosciuta. Ed è quello che mi ha interessato. E poi il fatto che porto gli occhiali, anche questa una novità. Diventa una sorta di monologo interiore. Avevo voglia di toccarli, togliergli, guardare il mondo attraverso gli occhiali. Mi sembrava di avere un dialogo con le lenti, mi permettevano di coltivare segreti».
Ha mai pensato che un miope se si toglie gli occhiali può sentirsi protetto?
«Paradossale ma vero, perché i timidi che non vedono bene possono fissare le persone».
Quella donna è indipendente, single per scelta.
«Però non venite a dirmi che è un film femminista, d’altra parte è una parola che va ridefinita, io non ne capisco più il senso».
Come vive la maturità?
«Non mi sento matura, non solo nella maturità, non conosco la saggezza, mi sento sballottata dalla vita».
Ha sempre voglia di raccontare la sua famiglia?
«Ho sempre voglia di raccontare la mia vita come un diario. Ma il prossimo film non sarà autobiografico, magari tornerò alla mia famiglia in quello che verrà ancora dopo. Però un pezzo di me, l’autobiografia, ci sono sempre nei miei film».
Con sua sorella Carla Bruni vi siete chiarite dopo la sua intervista in tv in cui sentì le sue debolezze messe a nudo nei suoi film?
«Non parliamo di queste cose tra noi, non c’era niente da chiarire, non ci parliamo attraverso i giornali, quello che ci diciamo lo diciamo in cucina, lei ed io. Se vuole recitare? No, nemmeno nei miei film. Vuole cantare».
Che tipo di complicità ha avuto con Caterine Tardieu, la regista di L’attachement?
«Beh, ho dovuto fare un passo di lato, a volte era frustrante, io ho l’abitudine a inventare e lei diceva, ok rifacciamo la scena ma senza le fantasie di Valeria. Avevo un’energia diversa dal solito. All’inizio mi sono sentita castrata, tutte le mie invenzioni non avevano posto per lei. Io interpreto una libraia ed è un film letterario ma fluido, ha un ritmo naturale».
Qual è allora il libro della sua vita?
«Le piccole virtù di Natalia Ginzburg. Me lo regalò in aeroporto a Dakar Mimmo Calopresti al tempo in cui stavamo insieme. Riuscii ad entrare in tutti gli angoli della vita di quella magnifica scrittrice».
Lei dice che quando, da regista, interpreta i suoi film, si sente come un clown, oppure come una persona triste.
«Ho detto questo? Non lo so, sono una creatura molto imperfetta. La cosa peggiore è avere attorno gente perfetta».
C’è un film che avrebbe voluto fare?
«Sì, Babygirl, sulle fantasie erotiche di una donna adulta, il film con Nicole Kidman».
Valeria, si sente più italiana o francese?
«Italiana senza dubbio. L’identità di una persona viene dall’infanzia. La mia adolescenza, la mia cultura letteraria sono italiane. E in Francia ho frequentato la scuola italiana. Diciamo che la mia vita adulta è Parigi, quella più controllata, vicina alla mia libraia. Allora, con gli occhiali sono francese, senza sono italiana. Mettiamola così».