La Stampa, 21 marzo 2025
Il bimbo che sfida la Sharia: a 7 anni chiama la polizia e salva la mamma segregata dal padre dal 2015
È lui che accompagna la madre al pronto soccorso. Una donna che zoppica con il viso gonfio. Costretta da dieci anni, e ne ha 30, a vivere subendo «la legge islamica», o un’estrema interpretazione di questa, che il marito le impone.
È lui, questo bimbo di sette anni che, come scrive il medico di guardia, «capisce e parla perfettamente l’italiano», a salvarla. È lui che, vedendola atterrata dall’ultimo calcio, alle 21.12 del 3 ottobre chiama la polizia: «Venite. Papà sta picchiando la mamma».
È nato a Torino. Fa la seconda elementare. È il primo figlio, l’unico maschio – e per questo può andare a scuola – di questa donna finita quasi ammazzata perché non si è sottomessa. Prima della telefonata del bambino, nessuno si era mai accorto che una ragazza viveva come una schiava. Picchiata e stuprata. Costretta ad abortire se il feto era femmina, perché «le femmine portano solo guai». Costretta a non uscire di casa se non con il marito. Controllata a vista dalla suocera e dalla cognata. Obbligata a non imparare l’italiano. A non lavorare. A non avere le chiavi di casa. A non avere un soldo. E ad assistere alle prove delle relazioni con altre donne con cui il marito «nel nome» e con «il rito della legge islamica» si accompagnava. Altre mogli, altre schiave.
La ricostruzione negli atti giudiziari
C’è scritto in uno degli atti giudiziari: «Di fatto lui esercitava una facoltà consentita dall’Islam, di sciogliere il vincolo davanti a Dio ma senza formalizzare il divorzio, anzi, minacciando lei di non farlo e costringendola a stare con lui». Quando lei ha provato ad opporsi alle prevaricazioni, e lo ha denunciato, le violenze sono diventate più crudeli.
Violenze fisiche, economiche, psicologiche. Davanti ai bambini, il padre padrone gridava: «Fai schifo. Non ti guardi allo specchio? Non vali nulla. A Porta palazzo ne compro quattro come te. A un euro».
La procura chiede il braccialetto elettronico
Ogni cosa ha un prezzo, nel patriarcato più estremo. Anche il silenzio. E quando lei, durante un viaggio in Egitto nel 2019, subisce molestie sessuali anche dal suocero, e non riesce più a tacere, «la soluzione del fatto viene rimessa alla decisione dei saggi del villaggio», scrive la gip Paola Odilia Meroni, che nei giorni scorsi ha ordinato per l’indagato – accusato di maltrattamenti e lesioni aggravati – il divieto di avvicinamento ad almeno mille metri dalla donna e dai figli, il divieto di comunicazioni e il braccialetto elettronico. Una misura che davvero è il «minimo», ammette la gip. Ma questa era la richiesta della procura.
Siamo di fronte a una donna, spiega la giudice, che è diventata altro da sé. Costretta a sentire «espressioni denigratorie e mortificanti, a subire plurime coercizioni della libertà personale e plurime percosse volte alla sua educazione, ottenuta facendo leva sulla sua sofferenza».
«O mi obbedisci o ti ripudio», ripeteva l’aguzzino. Mentre la sorella di lui, dopo che lei aveva trovato la forza, grazie al figlio, di denunciare il marito, sui social scriveva: «Allah è grande. Lei è una puttana». Anche il comportamento delle parenti fa parte della «campagna di persecuzione finalizzata a farle perdere ogni pezzo di personalità», sottolinea la gip.
Mentre la madre veniva picchiata e annullata, c’era un bambino che andava a scuola. Un bimbo intelligente. Che si fermava anche al dopo scuola dell’oratorio. Un bimbo che a sette anni ha fatto tutto da solo.
Per un improvviso scatto del destino, nello stesso giorno in cui questo bimbo chiamava la polizia, una delle volontarie del dopo scuola riusciva a mettersi in contatto con lui: «Gli ho telefonato per caso. Per chiedergli come mai non era venuto all’oratorio. Lui mi ha detto che non poteva stare al telefono. Perché stava per arrivare la polizia, perché il padre picchiava la madre. Sono rimasta sconvolta. La mamma non mi aveva mai detto niente. Mai una parola». Hanno attivato i servizi sociali.
L’aiuto delle avvocate
Lei non poteva parlare. Era in trappola. Sequestrata in un alloggio di 50 metri quadrati con la suocera, la cognata e tre bambini. Fotografata mentre puliva i pavimenti in ginocchio dalla madre di lui, pronta a minacciarla di mandare le immagini in Egitto se la casa non era abbastanza pulita.
Dopo cinque mesi dalla denuncia, questa donna non ha ancora un luogo protetto in cui vivere. Le sue avvocate, Stefania Agagliate e Silvia Bregliano, le hanno trovato una sistemazione di fortuna. Lui è ancora piede libero. Il carcere non è un’opzione. Gli inquirenti non lo hanno mai chiesto.