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 2025  marzo 21 Venerdì calendario

Dazi, dal vino a formaggi e farmaceutica: l’Italia rischia un conto da 7 miliardi di euro

È una corsa contro il tempo. Fatta di attese, scatti in avanti, frenate improvvise. L’Italia rischia grosso dai dazi di Donald Trump. Fino a due miliardi di euro solo per le tariffe su acciaio e alluminio. Molto di più se, come sembra, saranno anche i vini tricolori a finire nel mirino delle misure Usa con dazi stellari, fino al 200 per cento. Di qui la diplomazia che si muove. Ieri il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha incontrato il Commissario Ue al Commercio Maros Sefcovic. Vis-a-vis per allinearsi sulla risposta ai dazi americani che non potrà non essere europea, visto che la Commissione ha la competenza esclusiva in materia. Una lista di contromisure è già stata approvata da tutti gli Stati membri. È la pistola sul tavolo, potrebbe caricarsi di ulteriori colpi (c’è già una lista-bis abbozzata) se i dazi che Trump calerà contro i prodotti europei il prossimo 2 aprile saranno più duri del previsto. Ma sul tavolo rimane, la pistola, perché l’Ue vuole trattare e infatti ieri i 27 hanno rinviato al 15 aprile l’entrata in vigore dei controdazi.

IL DIALOGO SOTTERRANEO
Ebbene tratta anche l’Italia, esposta come pochi altri alla bufera commerciale fra Washington e Bruxelles. A tu per tu con Sefcovic Tajani ha espresso le remore italiane. Il governo chiede di non colpire prodotti made in Usa che innescherebbero una durissima e immediata reazione contro settori cruciali per l’economia domestica. Preoccupano i dazi contro il whiskey, ad esempio, si porterebbero dietro una rappresaglia muscolare contro i vini italiani. I numeri sono da capogiro. Contro il comparto enologico europeo l’amministrazione Trump prepara dazi del 200 per cento, si diceva. Una mannaia potenzialmente letale. Non sono stime eteree ma cifre riferite dal governo americano direttamente alla controparte italiana. Due settimane fa per le precisione. Quando Tajani, d’intesa con Meloni e dopo aver consultato Sefcovic, ha spedito a Washington una delegazione di diplomatici in esplorazione, guidata da Alfredo Conte, direttore centrale per la politica commerciale internazionale. Come è andata? Non proprio rose e fiori. Rosee del resto non erano le aspettative. Trump e i suoi emissari non lasciano grandi margini per la trattativa con l’Europa. Mal sopportano la Commissione europea, i suoi riti e i suoi ritmi. Accusano gli alleati di «truccare» il sistema con una serie di espedienti. Come l’Iva (imposta sul valore aggiunto) che è compatibile sulla carta con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio e tuttavia è considerata a quelle latitudini una misura che incentiva le esportazioni europee e danneggia «gravemente» quelle americane. Ancora: la tassa sui servizi digitali introdotta dall’Ue, una mannaia contro la Silicon Valley che a Trump (come a Biden) non va giù. Qui si entra in un terreno scosceso per l’Italia. La tassa alle Big Tech piace al centrodestra di governo. Di più: risponde a una radicata antipatia per le grandi aziende tecnologiche americane, i maxi-profitti che generano, il terreno ideologico su cui camminano i guru digitali americani (ora in realtà convertiti quasi tutti al trumpismo). Quella tassa europea, a cui l’Italia si è adeguata, rischia di trasformarsi in una mina nella trattativa sui dazi. A Roma hanno fatto qualche ritocco, è stata eliminata a livello nazionale la soglia dei «ricavi» per queste società. Non basterà a ripararsi dalla tempesta: «È del tutto insufficiente» hanno fatto sapere al team della Farnesina alti dirigenti del Dipartimento del Commercio. Se la legge non cambia, «tariffs are guaranteed», «i dazi sono certi».
Insomma la via è scoscesa. E i numeri sciorinati dai report di Palazzo Chigi, costantemente aggiornati, suggeriscono massima prudenza. Meloni non a caso prende tempo, chiede all’Europa di fare altrettanto. C’è margine per trattare, si convincono ai piani alti del governo, chissà se troppo ottimisti. Per dirla con Tajani: «Dobbiamo insistere nel dialogo e anche trattare eventuali concessioni, senza cadere nella tentazione delle rappresaglie fuori controllo». Scrive così il vicepremier nella prefazione al piano italiano per l’export che sarà presentato oggi a Villa Madama. Roadmap che individua obiettivi ambiziosi – 700 miliardi il valore delle esportazioni previsto entro la legislatura – e punta ai mercati emergenti come clausola di garanzia dalla guerra commerciale, dal Messico al Sud Est asiatico. Senza Trump e le tariffe del 2 aprile però il rischio è fare i conti senza l’oste. L’Europa vuole sedersi al tavolo con il “dealer-in-chief”, come prova il rinvio delle contromisure al 15 aprile. Intanto il governo italiano cerca una via di uscita dal tunnel. Tra i settori più esposti – su cui Tajani ha chiesto cautela a Sefcovic – c’è l’industria del vino, assieme all’agroalimentare (specie i formaggi made in Italy) e il farmaceutico.

I NUMERI
La posta in gioco è altissima. Ancora qualche numero per capire: stando agli ultimi report del governo, il danno per l’Ue potrebbe oscillare tra i 54 e gli 88 miliardi di euro, a seconda di quanto duro sarà il colpo calato da Trump il 2 aprile. Solo l’Italia rischia un conto da 7 miliardi. Ecco spiegato l’attivismo frenetico sull’asse Roma-Bruxelles-Washington. Il gioco di squadra con l’Europa e anche in solitaria, nelle retrovie, per chiedere garanzie. Con Trump tutto è possibile, sospirano a Palazzo Chigi dove nessuno vive con leggerezza l’attesa del d-day dei dazi. Countdown di dieci giorni, poi bisognerà prendere le misure. Come hanno detto i colonnelli dell’amministrazione Trump agli emissari italiani, «the ball is in your court», «la palla è nel vostro campo».