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 2025  marzo 21 Venerdì calendario

L’Oms codifica l’internet gaming disorder

«Un caso non isolato». A dirlo è Angela Lacalamita, dirigente psicologa del Serd (il Servizio per le dipendenze patologiche) della Asl di Bari, in Puglia. Si riferisce alla vicenda un ragazzino di appena sedici anni che, vittima di atti di bullismo, proprio non riesce a staccarsi dalla Playstation. Lo schermo sempre acceso, il joystick in mano, quei giochi, a ripetizione, il game-over che over (finito) non è per mai. È invece il tribunale dei minori, presieduto dalla giudice Valeria Montaruli, che qualche settimana fa prende una decisione importante: affida l’adolescente ai servizi sociali del Comune barese, in particolare modo a quelli di neuropsichiatria infantile, e manda la madre al consultorio famigliare per iniziare le pratiche di sostegno alla genitorialità. Perché non è uno scherzo e nemmeno un “gioco da ragazzi”.
È un fatto grave, che dura da qualche anno, da quando il 16enne comincia saltare la scuola e piano piano si chiude a riccio. Si isola dai suoi coetanei, dai compagni di classe, dagli amici. Con quelle giornate sempre uguali: lui che rientra a casa, si chiude in cameretta, si mette le cuffie e accende “la play”. Ore e ore passate senza battere ciglio. Un soggetto «politraumatizzato» a causa di violenze subite in un età in cui è sempre più difficile affrontare qualsiasi guaio, figuriamoci una piaga come il bullismo che coinvolge, almeno una volta nella vita, circa il 65% dei giovani.
Ci provano subito, gli assistenti sociali, a tirarlo fuori da quel tunnel del “gaming” no-stop. Il tribunale per i minorenni indica alcune strategie per instradarlo in un percorso di (ri)socializzazione, ma non c’è verso. Al contrario. Lui reagisce all’opposto: rifiuta l’educatore domiciliare, continua a smanettare davanti al pc e alla smart-tv, si auto-segrega ancora di più.
Per questo, adesso, i magistrati stanno provando il tutto per tutto per allontanarlo da quella «possibile dipendenza da videogiochi». Ché sì: a lui deve essere sembrata un modo (veloce) per scappare da una realtà che lo maltrattava, per crearsi una “vita parallela” (e virtuale) lontana da quel contesto scolastico nel quale si sentiva preso di mira, ma che ha finito per diventare totalizzante. Per bloccarlo ulteriormente in un loop infinito.
«La dipendenza da disturbo tecnologico è un fenomeno molto diffuso tra i giovanissimi», spiega ancora Lacalamita su Repubblica, «anche se spesso è sottovalutato dalle famiglie». Al punto che, solo a Bari e solo in questo momento, sono otto i pazienti in cura per questo disturbo. Secondo i dati del 2024 dell’Iss, l’Istituto superiore di sanità, in tutta Italia l’“internet gaming disorder” (ha un nome specifico perché è trattato addirittura dall’Oms, ma poi ci arriviamo) riguarda persino il 12% degli studenti, cioè una platea di giovani e giovanissimi di circa 480 mila unità. Non si tratta (più) di qualche allarme sporadico lanciato dalle nonne che negli anni Novanta ci vedevano (incredule) incollati davanti agli schermi digitali a smanettare con Super Mario Bros anche se fuori era una bella giornata primaverile: oggi i numeri sono ben altri. Nei videogiochi, in Italia, si cimentano per lo più i ragazzini tra i quindici e i 24 anni e gli adulti nella forbice tra i 45 e i 65: in tutto sono più o meno tredici milioni (di cui otto maschi). Il mercato globale di riferimento, che è volatile perché dipende dalle stagioni, parla comunque di un giro d’affari medio di 90 miliardi di dollari l’anno. Le console vecchia data, il computer collegato alla rete, ma anche i tablet e gli smartphone.
È dal gennaio del 2022 (ci siamo arrivati) che l’Oms ha inserito la dipendenza da videogiochi nell’Icd, l’International classification of diseases, il “manuale” che elenca le patologie. Alla stregua del gioco d’azzardo o del tabacco. Non si diventa dipendenti dopo una partita (neanche dopo dieci), è semmai una questione scientifica: c’entra la dopamina, che è un neurotrasmettitore, esattamente come per i fumatori compulsivi. Il periodo della pandemia, quando eravamo chiusi in casa col Covid, non ha aiutato. In Cina, per esempio, proprio per contrastare il “gaming disorder”, nel 2020 il governo ha imposto restrizioni draconiane: un’ora di gioco al dì per chi non aveva ancora 18 anni e per tre sole sere alla settimana, dal venerdì alla domenica. I divieti del regime comunista di Pechino, visti da occhi occidentali, possono sembrare esagerati: ma che ci sia un fenomeno (globale) di cui ci occupiamo poco è indubbio.