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 2025  marzo 20 Giovedì calendario

Greenpeace, dai Servizi alle multe in tribunale: ecco chi vuole fermare i guerrieri dell’ambiente

Nel gergo politico odierno, l’equipaggio avrebbe potuto essere chiamato una “coalizione di volonterosi”: uomini e donne, giovani e anziani, provenienti da mezzo mondo, uniti da un solo credo, l’ambientalismo. Anzi, l’ecologismo, come lo si chiamava allora. Era il 1985, quando come inviato di Repubblica mi ritrovai a bordo della Rainbow Warrior, un ex-peschereccio trasformato nella prima nave di Greenpeace, in rotta dal mar dei Caraibi al Pacifico, attraversando il canale di Panama, per andare a disturbare i test nucleari della Marina militare francese nell’atollo di Mururoa, in Polinesia.
La sentenza e Trump
La missione ebbe successo. Il governo di Parigi, in seguito, smise di scatenare l’apocalisse atomica in quel paradiso dei Tropici. La Rainbow Warrior fece però una brutta fine. E adesso rischia di finire anche Greenpeace: la sentenza di un tribunale americano che la condanna a pagare una sanzione di 660 milioni di dollari per una delle sue campagne potrebbe mettere l’organizzazione in bancarotta. I suoi portavoce hanno già annunciato un ricorso contro un verdetto che definiscono ingiusto. Ma questo è solo il più grave e immediato dei problemi per quella che un tempo è stata il simbolo della lotta per salvare il pianeta Terra da gas inquinanti, deforestazione e effetto serra. In un mondo pervaso dall’ideologia antiambientalista di Donald Trump, al grido di “drill, baby, drill” rivolto all’industria petrolifera, ovvero scava quanto vuoi, dove vuoi, i Verdi vivono un momento di difficoltà. E Greenpeace di questo movimento ha rappresentato l’avanguardia: i guerrieri decisi a tutto. Se scomparisse, sarebbe un allarmante segno dei tempi.
Resistenza passiva e sabotaggi
La data di nascita di Greenpeace oscilla tra il 1969 e il 1971. Di certo ha le sue radici nella controcultura giovanile e negli hippie degli anni Sessanta. E le sue origini tra Vancouver e la costa occidentale degli Stati Uniti, dove in quegli anni un gruppetto di giovani americani e canadesi, tra cui Jim Bohlen, un veterano di guerra, e la coppia Irving e Dorothy Stowe, cominciò a organizzare proteste contro gli esperimenti nucleari del Pentagono in Alaska.
Inizialmente erano collegati al Sierra Club, un’organizzazione ambientalista del Canada. Quindi ne crearono una propria. Il nome diceva tutto: Greenpeace, Pace verde. La novità era che, per ottenere questa “pace”, i suoi militanti erano disposti a combattere: non si limitavano a marciare alzando cartelli di protesta e urlando slogan, ma adottavano tattiche che andavano dalla resistenza passiva al sabotaggio, fino a sfidare apertamente i fautori dell’inquinamento, cercando di boicottarne concretamente i progetti.
Quelle di Greenpeace non erano semplici manifestazioni, ma battaglie, dove a volte si rischiava anche la vita. E qualcuno l’ha persa.
55 Paesi, 3500 dipendenti
In oltre mezzo secolo di attività, le navi e gli attivisti di Greenpeace hanno sbarrato il passo a unità militari della Marina americana o di altri Paesi per impedire test atomici, speronato baleniere per fermare la caccia ai più grandi animali degli oceani, sabotato oleodotti e gasdotti, attaccato laboratori di ricerca sugli alimenti geneticamente modificati, ostruito piani per sradicare alberi dall’Amazzonia e da altre risorse naturali. Le sue campagne, condotte in tutto il mondo, si sono concentrate su cambiamento climatico (considerato oggi la minaccia principale), deforestazione, pesca intensiva, caccia alle balene, ingegneria genetica, pacifismo e antinucleare.
Con sede centrale ad Amsterdam, in Olanda, oggi Greenpeace è suddivisa in 26 sedi nazionali o regionali indipendenti, sparse in 55 Paesi, in tutti i continenti. La sua rete globale non accetta finanziamenti da governi, aziende o partiti politici, contando solamente sulle donazioni di tre milioni di sostenitori individuali e di fondazioni senza scopo di lucro. Ha un budget annuale di oltre 100 milioni di euro, uno staff a tempo pieno d 3500 dipendenti, a cui si aggiungono 35 mila volontari.
Il suo sito greenpeace.org e il suo logo sono fra i portabandiera del movimento ambientalista internazionale. E le sue iniziative, a base di azioni dirette, sebbene non violente, sono fra le più visibili nella crociata per salvare il pianeta. Probabilmente nessun’altra associazione ecologista ha aumentato la consapevolezza del cambiamento del clima e di altri disastri ambientali più di Greenpeace, anche se al suo fianco ne sono comparse altre, incluse figure di risonanza mondiale con la giovane attivista svedese Greta Thunberg.
Le critiche dei premi Nobel
Ma non sono mancate le critiche. Patrick Moore, uno dei suoi primi membri, ha lasciato l’organizzazione contestando una campagna contro il cloro nell’acqua potabile. Altri militanti hanno a un certo punto messo in discussione il bando dell’energia nucleare richiesto da Greenpeace, sostenendo che le centrali atomiche vanno rese sicure ma che senza di esse sarà impossibile ridurre la dipendenza dai carburanti fossili e le emissioni di carbonio (l’obiettivo di Greenpeace è creare un’economia mondiale interamente a base di energie sostenibili, come i pannelli solari o le pale eoliche, entro il 2050).
E nel 2016 una lettera aperta firmata da 107 premi Nobel ha esortato Greenpeace a mettere fine alla sua opposizione agli organismi geneticamente modificati, affermando che si tratta di una campagna “basata sulle emozioni e su dogmi, contraddetta da dati scientifici”.
L’organizzazione e i suoi militanti hanno ricevuto innumerevoli citazioni in giudizio, multe e pene con la condizionale. Mai tanto pesanti, però, come quella di questi giorni nel Nord Dakota, dove una corte americana l’ha condannata a pagare 660 milioni di dollari per danni e diffamazione contro una locale azienda petrolifera.
La fine della Rainbow Warrior
Nel 1978 Greenpeace lanciò la Rainbow Warrior (Guerriero dell’Arcobaleno), una ex-barca da pesca acquistata per 40 mila dollari e riadattata in quattro mesi di lavori. È stata usata in campagne contro la caccia alle balene e alle foche in Islanda e in Scozia, contro l’inquinamento degli oceani, contro i test nucleari. Su questa nave salii a bordo per conto di Repubblica a metà degli anni Ottanta per un lungo viaggio con destinazione la Polinesia francese, appunto con l’obiettivo di dare fastidio agli esperimenti di Parigi con le bombe atomiche. Ne sbarcai appena in tempo. Nel luglio del 1985, mentre l’imbarcazione era ormeggiata a Auckland, in Nuova Zelanda, un’operazione clandestina dei servizi segreti francesi la affondò con due esplosioni.
Fernando Pereira, un fotografo portoghese che come me aveva preso parte alla spedizione per documentarla per il suo giornale, morì nell’attentato, i cui mandanti furono presto scoperti dalle autorità neozelandesi, causando enorme imbarazzo al governo del presidente francese Francois Mitterand. Si dimise il ministro della Difesa e due agenti, processati per omicidio involontario, vennero condannati a dieci anni di carcere. Greenpeace sopravvisse, acquistando altre navi, chiamate via via Rainbow Warrior II e Rainbow Warrior III, con le quali ha proseguito le sue battaglie. Ora il pericolo è che una condanna a risarcire centinaia di milioni di dollari faccia affondare non soltanto una barca, ma l’intera organizzazione che da 56 anni è il volto dell’attivismo ambientalista.