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 2025  marzo 20 Giovedì calendario

Istat: con la svolta dei dazi Usa più “vulnerabili” oltre 23mila imprese italiane (il 16,5% del totale export)

La svolta “protezionistica” degli Stati Uniti rende più vulnerabili nei confronti della domanda estera (basato sulla quota di fatturato aziendale esportato e sul grado di concentrazione merceologica e geografica delle esportazioni), oltre 23mila imprese, che in generale rapprese lo 0,5 per cento del totale ma impiegano oltre 415 mila di addetti (il 2,3 per cento del totale) e generavano il 3,5 per cento del valore aggiunto e il 16,5 per cento dell’export totali, che rappresenta 87 miliardi circa. Il dato emerge dal tredicesimo Rapporto sulla competitività dei settori produttivi dell’Istat, presentato giovedì 20 marzo a Genova dal presidente Francesco Maria Chelli e dal vice presidente di Confindustria per il Centro Studi, Lucia Aleotti.
Nella manifattura, incidenze elevate di imprese vulnerabili all’export (sul totale delle imprese esportatrici) si riscontrano nelle «altre attività manifatturiere» (oltre il 31 per cento del totale) e, a seguire, in alcuni rilevanti settori del modello di specializzazione italiano: i Mezzi di trasporto (28,7 per cento), gli Articoli in pelle (27,3 per cento), gli Autoveicoli (26,2 per cento), i Macchinari (24 per cento). Nel 2022 (dati su cui si basa l’analisi) le imprese erano vulnerabili soprattutto alla domanda statunitense (quasi 3.300 unità, in aumento rispetto al 2019) e tedesca (oltre 2.800). Le imprese vulnerabili verso gli Stati Uniti esportavano in tale mercato prevalentemente prodotti farmaceutici, prodotti meccanici (turboreattori e turbopropulsori), gioielleria, generi alimentari (vini e oli) e mobili; quelle vulnerabili alla domanda tedesca soprattutto parti di autoveicoli, beni energetici (gas), materiale elettrico (fili e cavi), prodotti in metallo (quali viti e bulloni) e lavori in alluminio (barre e profilati), per un totale di circa 10 miliardi di euro. Le imprese vulnerabili alla domanda tedesca, invece (quasi 2.900), nel 2022 vi esportavano soprattutto parti di autoveicoli, beni energetici (gas), materiale elettrico (fili e cavi), prodotti in metallo (quali viti e bulloni) e lavori in alluminio (barre e profilati), per un totale di circa 13,6 miliardi di euro.
Un analogo indicatore di vulnerabilità d’impresa nei confronti dell’offerta estera (basato sul rapporto tra input importati e costi intermedi, sul grado di concentrazione merceologica e geografica delle importazioni e sull’acquisto di prodotti foreign dependent) mostra che le imprese vulnerabili all’import, nel 2022, erano ancora meno numerose di quelle vulnerabili all’export: circa 4.600 unità (0,1 per cento del totale), ma avevano dimensioni medie maggiori (oltre quadruple), una produttività del lavoro doppia rispetto alla media del sistema. Impiegavano circa 400 mila addetti e generavano il 5,7 per cento del valore aggiunto e, soprattutto, il 23,8 per cento delle importazioni complessive. L’incidenza più elevata si registrava nella Farmaceutica (il 20 per cento delle importatrici) o in comparti tendenzialmente a monte delle catene del valore, quali Legno (16,4 per cento di importatori vulnerabili), Coke (13,5 per cento), Chimica (9,7 per cento). Nel 2022 le imprese erano vulnerabili soprattutto all’importazione di materie prime e beni intermedi dalla Germania (quasi 900 unità) e in generale verso i mercati UE, mentre nel caso dei paesi extra UE si osserva nei confronti della Cina (circa 800 unità).Gli orientamenti protezionistici della politica commerciale statunitense dovrebbero colpire soprattutto l’UE

Il rapporto Istat rileva che nel 2024 il commercio mondiale in volume ha segnato una decisa accelerazione (+3,4 per cento secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, da +0,8 per cento del 2023). Il contributo più rilevante è stato fornito dall’Asia (inclusa la Cina); l’Europa, nel complesso, ha continuato nel 2024 a fornire un contributo negativo, penalizzata dalla guerra in Ucraina e dalla debolezza dell’economia tedesca. Gli orientamenti protezionistici della politica commerciale statunitense – si ribadisce – dovrebbero colpire soprattutto l’UE, che nel 2023 presentava un grado di apertura commerciale quasi quattro volte superiore a quello degli Stati Uniti, in crescita negli ultimi decenni anche a causa del persistere di barriere non tariffarie agli scambi interni al mercato unico europeo. La moderazione dell’inflazione globale e le previsioni di crescita economica stabile suggeriscono per il 2025 la prosecuzione della tendenza positiva del commercio internazionale. Sul futuro andamento degli scambi pesano tuttavia numerosi rischi al ribasso: gli indicatori relativi alla presenza di attriti commerciali internazionali e alle pressioni sulle catene globali di distribuzione, si mantengono su valori elevati. Inoltre, il ruolo crescente degli scambi di servizi (che strutturalmente attivano meno scambi rispetto ai beni), ha contribuito a una riduzione dell’elasticità del commercio alla crescita mondiale.
In base ai più recenti dati del WTO, l’insieme di misure restrittive alle importazioni è progressivamente cresciuto, con poche eccezioni, a partire dal 2009, toccando i 2.942 miliardi di dollari nel 2024, pari all’11,8 per cento delle importazioni mondiali. Tra il 2019 e il 2023 le esportazioni italiane in valore sono significativamente aumentate soprattutto verso degli Stati Uniti (+47,5 per cento) e la Cina (+47,8 per cento); nel 2024 si è invece registrata una flessione (-3,6 e -20,0 per cento; -5,0 per cento verso la Germania). Nel 2024, l’esposizione dell’Italia verso gli Stati Uniti (la quota di questo mercato sull’export italiano superava il 10 per cento) era simile a quella della Germania e superiore a quella di Francia e Spagna, mentre minore risultava l’esposizione verso la Cina (2,4 per cento, contro il 5,8 per cento della Germania).
Nel 2024 l’Italia ha registrato un ampio avanzo commerciale verso il mercato americano (34,7 miliardi di euro), principalmente determinato da quattro grandi comparti manifatturieri: Meccanica (10,8 miliardi di euro), Alimentare-bevande-tabacco (oltre 7 miliardi), Tessile-abbigliamento-pelli (oltre 5 miliardi) e Mezzi di trasporto (6,1 miliardi, di cui 3,5 nel solo comparto degli autoveicoli). L’export in valore di beni italiani negli Stati Uniti è principalmente costituito da vendite di prodotti farmaceutici, autoveicoli, navi e imbarcazioni, macchinari; tra i principali gruppi di prodotti, figurano anche le vendite di bevande (vini), articoli di abbigliamento e mobili.
In una prospettiva di lungo periodo, tra il 2007 e il 2019 la Cina ha sostituito gli Stati Uniti al centro della rete di scambi mondiali, in un contesto di progressiva polarizzazione delle relazioni commerciali attorno a questi due paesi. Ciò ha comportato una relativa marginalizzazione delle economie europee, che hanno visto indebolirsi i legami con i paesi dell’area del Pacifico (entrati stabilmente nell’orbita cinese) e confermare una sostanziale accentuazione della regionalizzazione degli scambi. Secondo un indicatore di vulnerabilità che sintetizza il grado di dipendenza e di concentrazione delle importazioni di input intermedi di un paese, l’Italia risulta più vulnerabile alle forniture dall’estero rispetto a Germania, Cina e Stati Uniti. Il divario con la Germania è andato diminuendo negli ultimi anni, a causa di un progressivo aumento della dipendenza tedesca dall’estero.
Nel suo intervento, il presidente dell’Istat Chelli ha osservato che negli ultimi anni, le imprese italiane attive sui mercati internazionali «hanno fronteggiato con successo un contesto non facile, reagendo a shock che si sono alternati in rapida successione: emergenza sanitaria, crisi energetica e inflazione, guerra in Ucraina, tensioni geo-politiche, potenziali conflitti commerciali». Riguardo questi ultimi, peraltro, l’Unione europea presentava nel 2023 – ha aggiunto Chelli- «un grado di apertura commerciale quasi quattro volte superiore a quello degli Stati Uniti, il che la espone a rischi maggiori dovuti al nuovo orientamento della politica commerciale statunitense. Si tratta, in generale, di fattori che nessun paese europeo è in grado di contrastare pienamente da solo e che richiederebbero interventi di rilancio strutturale della competitività dell’industria europea più coordinati tra i paesi, un messaggio questo che abbiamo voluto esprimere in modo chiaro nel nostro Rapporto».