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 2025  marzo 20 Giovedì calendario

I pastai temono i dazi americani E negli Usa fanno scorta di fusilli

Spaghetti alla carbonara, fusilli al Gorgonzola, trofie al pesto, lasagne alla bolognese, orecchiette alle cime di rapa… Si fa presto a dire pasta: la diffusione di questo primo piatto è tutt’uno con la storia delle sue ricette regionali, che hanno portato gli italiani a consumare 23 chili all’anno di prodotto ma anche ad esportare il 61% di quel che esce dalle trafile in bronzo e teflon disseminate ovunque vi sia acqua di sorgente.
I pastai di Unione Italiana Food hanno realizzato il primo censimento di ricette della tradizione, individuandone duecento. Tra qualche giorno si vedrà se questo legame tra gusto e territorio – nella classifica di Taste Atlas, la Top 20 dei migliori piatti a base di pasta al mondo è occupata da quelli delle regioni italiane con al primo posto la Pasta ‘ncasciata, seguita dai Bigoli all’anatra, e dalla Carbonara – sia anche un vantaggio competitivo in una guerra sui prezzi. La nuova politica dei dazi di Trump dovrebbe dispiegare i propri effetti dal 2 aprile, quando saranno resi noti i “dazi personalizzati” che la Casa Bianca intende imporre ad alcuni partner commerciali, e particolarmente a quelli, come Ue e Cina, che detengono quote importanti del debito americano e vorrebbero svincolarsene. Solo allora si capirà il destino del Made in Italy alimentare. Imprenditori come Riccardo Felicetti, amministratore delegato dell’omonimo gruppo pastaio trentino, che esporta solo negli Stati Uniti il 15%, ci dice di essere «seriamente preoccupato». Il nostro governo riunirà gli industriali solo all’inizio di aprile per fare il punto: non si sa nulla anche se nel settore del vino è già scattato l’allarme rosso. Non si tornerà agli anni Novanta, quando un pacchetto Barilla o De Cecco negli Usa veniva gravato di un dazio del 100%. Ma non è un buon segno che gli americani in queste ore facciano incetta di fusilli. «In questi mesi abbiamo venduto tutto il possibile su quel mercato» ammette Felicetti. Nei porti americani si sta scaricando pasta come se non ci fosse un domani, allo scopo di anticipare la serrata. Da tempo questo settore cresce sull’export: oggi vale il 61% della produzione e gli Usa sono il principale sbocco, soprattutto per i marchi di qualità – Felicetti propone formati introvabili altrove e pasta monograno, che contiene cioè una sola varietà di frumento coltivato in Italia – che faticano a posizionarsi nella grande distribuzione europea. «La manovra è politicamente incomprensibile – commenta l’imprenditore trentino – perché colpisce il ceto medio americano, visto che la pasta non è certamente un bene di lusso e i dazi sul grano canadese potrebbero squilibrare il mercato delle commodities».
In questo momento l’alea riguarda la tariffa daziaria e l’amore per la pasta. Cioè la propensione del consumatore americano, su cui ricadrà il maggior costo, a pagare di più i rigatoni. Imprese come Felicetti non cambiano i loro programmi: si continua a innovare e ad ampliare gli stabilimenti di Molina di Fiemme e Predazzo, per salire da 67 a 100 milioni di fatturato entro il 2030. Tra i pastai italiani non si respira aria di ritirata, ma si cerca di fare fronte comune con il sistema Paese. Margherita Mastromauro, presidente dei pastai di Unione Italiana Food, presentando la ricerca sulle ricette regionali, ha ricordato che «la pasta si è arricchita, diventando espressione di geografie, territori, latitudini, culture a cui le aziende che producono pasta hanno gradualmente aggiunto valore grazie al loro saper fare e all’avanzamento tecnologico nella produzione». L’innovazione assorbe ogni anno il 10% del fatturato dei pastai.
Oggi la produzione mondiale di pasta sfiora i 17 milioni di tonnellate e l’Italia è prima con 4 milioni di tonnellate e un fatturato di 8 miliardi di euro. Brilliamo anche nell’export, ma nulla è più scontato.