Corriere della Sera, 19 marzo 2025
Intervista a Monica Maggioni
Monica Maggioni, che cosa facevano i suoi genitori?
«Mio papà faceva l’operaio alla Pirelli. Ma soprattutto è stato uno dei sindacalisti più importanti della Milano tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, uno dei pezzi decisivi del mondo sindacale di Bicocca. Cattolico, iscritto alla Cisl, veniva da una famiglia contadina e aveva una durezza nella dialettica sindacale e un rigore morale tali da essere considerato un esempio anche da tanti dirigenti della Cgil, quindi dai comunisti. Pensi che alle Teche Rai ho ritrovato delle immagini pazzesche di lui con un megafono in mano durante le manifestazioni del 1969 dopo l’attentato di Piazza Fontana. Subì in presenza mia, di mio fratello e di mia mamma una sorta di processo politico da parte delle Brigate Rosse. È la prima volta che lo racconto».
Come andò?
«Si immagini la sera normale di una famiglia normale; vivevamo al primo piano di questa piccola villetta in Brianza, dove il piano terra era occupato dal garage. A un certo punto, io avrò avuto nove massimo dieci anni, quindi sarà stato nella prima metà degli anni Settanta, si sente un trambusto per le scale e dei colpi violenti alla porta. Mio padre evidentemente capisce di che si tratta e mi trascina con la forza in camera da letto, prendendomi dal pigiama. La cosa lì per lì mi aveva colpito, l’essere spedita in camera intendo, anche perché la nostra era una famiglia montessoriana, in cui si parlava di tutto, in cui ai figli si spiegavano anche le cose degli adulti».
E poi?
«Curiosa com’ero, mi affaccio di nascosto dalla camera da letto e vedo questi ragazzi con l’eskimo, la barba incolta e i capelli lunghi che si chiudono con mio papà in salotto per sottoporlo a una specie di processo del popolo. I sindacalisti, per le Brigate rosse, erano nemici più pericolosi dei padroni delle fabbriche: quel pezzo di sindacato molto duro ma col senso del dovere, del lavoro, della fabbrica per loro era un avversario da cancellare. Mio padre mantenne il punto e, pur convivendo per gli anni a venire con la paura di essere ucciso, per fortuna se la cavò».
Come finì quella sera?
«Non l’ho mai saputo. So che mio padre, che era uno che parlava molto, di quella sera ha sempre detto poco o nulla, se non di aver subito un processo da parte delle Br, per giunta dentro casa».
Sua mamma?
«Figlia della Baggio poverissima, della Milano più umile, lavorava al Giorno come segretaria del capo del personale. Era il punto di riferimento degli inviati del giornale e quindi amica di gente come Tiziano Terzani, Giampaolo Pansa, Marco Nozza. Il sogno di fare la giornalista è maturato respirando per interposta persona quell’aria, ascoltando le loro storie».
È scomparsa da poche settimane.
«Nelle sue ultime ore le ho parlato dei suoi anni al Giorno e lei mi ha sorriso. L’ultimo sorriso della sua vita è stato quindi per quei ricordi là. Che poi, senza il suo lavoro, non sarei dove sono adesso; senza i racconti dei grandi reportage di Terzani o dei pezzi di Pansa, senza il desiderio di essere accompagnata a vedere le rotative, senza il primo libro avuto in regalo da lei, Penelope alla guerra di Oriana Fallaci, forse non mi sarebbe mai venuto in mente di voler fare la giornalista. E a tutti i costi».
Scuole?
«Liceo scientifico a Lecco, durissimo. E università alla Cattolica, a Milano, perché mi consentiva di laurearmi in più lingue: sono francesista ma ho studiato molto la letteratura anglo-americana».
Studentessa politicizzata?
«Al liceo, come tutti. All’università no, ero totalmente concentrata sulle mie cose: gli studi, le letture, la letteratura e quel sogno di fare la giornalista che non riuscivo ad accantonare».
Al giornalismo com’è arrivata?
«Per gradi. Il primo fu la notte insonne al termine della quale decisi che non avrei accettato la proposta di rimanere in università come ricercatrice. Poi si trattava di partire da zero; e il mio zero furono Unica Lombardia Tv e certe riviste specializzate di moda per cui presi a scrivere dopo aver risposto a un annuncio sul giornale».
L’epoca dei paninari, la coda finale della Milano da bere?
«Ero completamente estranea a quel mondo. Così com’ero estranea a qualsiasi circolo milanese dell’epoca. In quel tempo, a Milano, nel bel mezzo della decadenza di quel mondo che stava per finire, o eri dentro determinati circoli o eri fuori, non c’erano vie di mezzo: io ero fuori».
Com’è arrivata in Rai?
«Grazie all’unica volta che mia mamma si immischiò nei fatti miei. Consideri che era una che, quando mi arrivavano le cartoline a casa, le girava dal lato della foto per non guardare chi fosse il mittente. Un giorno, però, sentì dalla radio che la Rai avrebbe bandito un concorso per assumere giovani giornalisti. Ne parlammo e litigammo. Le dissi una cosa tipo “ma allora non hai capito come gira il mondo? Secondo te, con tutti i raccomandati che dovranno assorbire, alla Rai aspettano me?”».
Come andò a finire?
«Che senza dirmi nulla prese i miei documenti e mi iscrisse al concorso. Il bello è che ogni selezione che passavo ero sempre più arrabbiata e me la prendevo con lei. “Mi fregheranno alla fine, stiamo solo buttando tempo e denaro, che tra l’altro neanche abbiamo”».
E invece.
«Passai ma le sfortune non erano finite. Il concorso era stato bandito e voluto dalla Rai di Enrico Manca e di Gianni Pasquarelli, che avevano immaginato l’istituzione di questa scuola a Perugia per preparare giovani giornalisti freschi di assunzione in Rai; solo che, nel frattempo, si era insediato il nuovo consiglio di amministrazione, quello dei Professori, e l’assunzione per i vincitori di quel concorso non era più certa. Eravamo come esodati d’ingresso, per capirci».
Chi c’era con lei?
«Tra gli altri, Giovanni Floris e Daniela Orsello, Antonio Preziosi ed Ettore Giovannelli, Gerardo Greco. Siamo ancora amici anche se io, a differenza loro, appena potevo prendevo il treno e rientravo a Milano».
Gli esordi nel giornalismo?
«Nell’attesa che si risolvesse la grana burocratica con la Rai per l’assunzione, non avevo la possibilità di rimanere con le mani in mano; e per lo stage obbligatorio andai a Euronews, a Lione, dove c’era uno stipendio certo».
L’ingresso in Rai?
«A Tv7 cercavano un inviato giovane da buttare nella mischia. Avendo fatto il primo contratto lì, ero già con un piede e mezzo dentro il Tg1. Subito via: in Africa, Mozambico, a raccontare la carestia. Poi, quando nel 2000 il premier israeliano Ariel Sharon fece la passeggiata alla spianata delle Moschee, il direttore Gad Lerner e il vicedirettore Roberto Fontolan mi chiesero se me la sentissi di andare laggiù. Accettai di corsa e da lì non mi sono più fermata: la Seconda Intifada, Gerusalemme, poi l’Iraq. A Roma sono stata per condurre un’edizione di UnoMattina e quando, nel 2006, Riotta mi ha selezionato per la conduzione del Tg1 delle 20».
Come si diventa presidente della Rai?
«Da direttrice di RaiNews partii per l’Iran al seguito dell’allora ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Durante il viaggio iniziarono ad arrivarmi decine e decine di messaggi di colleghi giornalisti. Il tenore era del tipo “ma sei in corsa per la presidenza della Rai?”. Risposi chiedendo a ciascuno se non stesse delirando, visto che per me la cosa non stava né in cielo né in terra».
Era tutto vero.
«Me lo disse lo stesso Gentiloni, che aveva avuto segnali da Roma: “Guarda che la cosa potrebbe essere vera ma non pensarci più di tanto”. Partii per Teheran da giornalista della Rai, tornai da Teheran presidente dell’azienda».
Più ostica la presidenza della Rai o la direzione del Tg1?
«Nessuna delle due. Il direttore del Tg1 l’ho fatto con le armi mie, quelle del giornalismo; la presidenza Rai da secchiona, con tanto senso istituzionale e moltissima riconoscenza verso quell’azienda che tanti anni prima aveva scelto proprio me, nonostante pensassi fosse un luogo per soli raccomandati».
Venerdì in prima serata su RaiTre ricomincia Newsroom.
«È la mia creatura prediletta perché dentro ci sono le cose che piacciono a me: il punto di vista della redazione, gli inviati, l’osservatorio privilegiato da cui si evince che dietro una storia complicata non c’è una persona sola, ma un gruppo di lavoro. È giornalismo allo stato puro ma con un tocco che sembrerà da film di Guy Ritchie, il mio regista preferito».
Di solito teme più gli ascolti o la critica?
«Degli ascolti, anche volendo, non si può fare a meno. La critica la divido in due parti: quelli che scrivono cose per simpatia o antipatia e quelli che esercitano per davvero il diritto di critica; dei primi non mi importa né mi danno fastidio, dai secondi prendo spesso i suggerimenti, alle volte rammaricandomi per il non averci pensato prima io».
Si è fatta dei nemici?
«Succede, inevitabilmente. Però non c’è una corrispondenza: coloro che mi considerano una nemica non li considero nemici a mia volta. D’altronde, anche se su questa cosa non riesco mai a farmi credere, non odio nessuno perché non invidio nessuno. Lavoro per raggiungere i risultati miei, sono felice per i successi degli altri».
Difficile da credere, in effetti.
«Vabbe’, diciamo la verità. Di qualcuno sono invidiosa: di quelli che fanno delle bellissime vacanze».