Corriere della Sera, 19 marzo 2025
Il figlio di Marco Biagi: «Non perdono gli assassini di mio padre ma non provo più rabbia, ho capito che era morto quando mio fratello portò la bici in cortile»
Il 19 marzo di 23 anni fa, Lorenzo Biagi aveva 13 anni, era in seconda media ed era andato in gita a Mantova. Il suo papà, Marco Biagi, l’aveva accompagnato al pullman davanti ai Giardini Margherita, punto di ritrovo di tutta la classe. «Come al solito mi aveva chiamato “topolino”, mi disse che ci saremmo rivisti la sera, quando gli avrei raccontato la mia giornata e avremmo festeggiato il giorno del papà, tutti insieme».
Il giuslavorista, lasciato senza scorta da mesi nonostante le minacce ricevute, quella sera stava tornando in bici dalla stazione quando fu ucciso sotto casa da un commando delle Nuove Brigate Rosse. Per il suo assassinio sono stati condannati all’ergastolo Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma e Diana Blefari Melazzi, che si impiccò in cella.
L’ex brigatista Simone Boccaccini, condannato a 21 anni, ha già lasciato il carcere grazie ai benefici della buona condotta. Cinzia Banelli, la «compagna So», dopo il pentimento è entrata in un programma di protezione.
Come ogni anno Lorenzo parteciperà alla tante iniziative che in città ricorderanno la figura del professore. «Collaboro con una rivista di geopolitica, ho studiato Scienze politiche – dice di sé —. Mi occupo dei Paesi dell’Est Europa e della Russia. In questi anni ho viaggiato molto in quei Paesi. La guerra in Ucraina? Spero che si arrivi il prima possibile a un accordo per il cessate il fuoco che possa andare bene per tutti».
Ci racconta quella giornata?
«Ero andato in gita a Mantova, papà mi aveva accompagnato al pullman. È l’ultimo momento in cui l’ho visto, la sera è venuta a prendermi mamma. Come al solito l’ho aspettato a casa, era la festa del papa».
Come ha saputo che l’avevano ucciso?
«Un amico di mamma lo vide in strada e la chiamò. Le disse di scendere, lei non sapeva cosa fosse successo e ci chiese di rimanere in casa. Mio fratello è sceso lo stesso. Dalla finestra della mia camera vedevo il portone d’ingresso, quando scorsi mio fratello riportare in cortile la bici di mio babbo, ho capito».
E poi sono tornati a casa.
«Me l’hanno detto, ma io l’avevo già capito».
Ha scelto, con coraggio, di vivere il suo dolore in una dimensione pubblica. È spesso andato nelle scuole a raccontare chi era suo babbo.
«Parlarne nelle scuole mi fa bene e mi ha fatto bene. Quando racconto ai giovani c’è tanta partecipazione e questo mi rende felice».
Quanto è difficile essere il figlio di un eroe?
«Non lo so, è difficile dirlo. Spesso si viene identificati come “il figlio di”, scoccia un po’. Io ho la mia vita, le mie cose. Certo sono orgoglioso di mio padre, ma venire identificato così...però ci sta, lo capisco».
Immagino che agli esami quando aprivano il libretto sapevano chi fosse.
«A volte è capitato, io ho imparato a conviverci, sono passati 23 anni».
Suo papà sarebbe stato contentissimo di questo Bologna che lotta di nuovo per la Champions.
«Ha trasmesso a noi figli la sua passione per il calcio. Ci portava allo stadio da quando avevo 5 anni, andavamo tutti insieme. Adesso sarebbe molto felice. Io ci vado ogni domenica con mio fratello, è un momento nostro. Abbiamo un bel rapporto e la partita serve anche a passare tempo insieme».
In questi anni ha più volte stigmatizzato il ruolo pubblico di molti ex terroristi,
«È la cosa che disprezzo di più, non mi va giù. Ho sempre detto che bisognerebbe dare più spazio ai parenti delle vittime. Non perché vogliamo essere protagonisti, ma perché non lo devono essere loro che sono assassini e basta».
Il perdono?
«Un fatto personale che ognuno può esercitare come vuole. Io, per esempio, non li perdono perché non hanno mai fatto un passo indietro. Il perdono no, ma nemmeno la rabbia perché non porta a nulla e rovinerebbe solo la mia di vita».
Qual è il momento a cui tiene di più in questi 23 anni?
«Quando c’è la biciclettata. Quel tratto dalla stazione a casa l’ho fatto tante volte anche con lui. Arrivare in bici e ritrovare la piazzetta piena di gente ad aspettarci è un’emozione molto forte. Durante il minuto di silenzio spingo la bici fino a sotto a casa e lascio un mazzo di fiori, quello è il momento più emozionante».
Non avete mai lasciato la casa nonostante il trauma
«Ci siamo molto legati, abbiamo deciso di restare. I miei genitori quando si sono sposati erano venuti a vivere qui».