Corriere della Sera, 19 marzo 2025
Laura Feltri: «Io e il mio babbo Vittorio tra punizioni e regali, lui è il mio eroe»
Vittorio Feltri era poco più che ventenne, quando arrivò all’ospedale di Bergamo in un lontano 7 dicembre e si trovò di colpo (e senza alcuna avvisaglia ecografica) papà bis. L’infermiera gli si presentò con due fagottini rosa. «Quale delle due è la mia?», chiese lui. «Tutte e due», fu la risposta, seguita dallo svenimento del neo-babbo. Già, perché in casa Feltri lui non è il papà, ma il babbo. «In omaggio alla lingua toscana lo abbiamo sempre chiamato così», chiarisce una delle due gemelle primogenite, Laura Adele (oggi affermata agente immobiliare a Bergamo), che con l’altra Saba Laura, il fratello Mattia e l’ultimogenita, Fiorenza Adele, compone il quartetto di figli del noto giornalista bergamasco. Adele, nome che ritorna, è quello della mamma di Vittorio, mentre Mattia porta come secondo nome quello del papà del giornalista, Angelo.
Laura, una bella sorpresa, no?
«Diciamo che è stata una paternità fin da subito impegnativa. Mia mamma sarebbe mancata di lì a poco. Noi due, nate settimine, eravamo in incubatrice, e lui era agli inizi di una carriera professionale tutta da costruire, ma che all’epoca lo vedeva impiegato alla Provincia».
«Babbo Vittorio» che tipo di papà è stato?
«Autorevole ed autoritario al tempo stesso. Lui, grande lavoratore, si è sempre raccomandato che noi figlie ci rendessimo autonome e realizzate grazie al nostro lavoro. Un insegnamento all’avanguardia allora, quando sembrava che l’unico mezzo di emancipazione femminile fosse il matrimonio, ma che ha precorso i tempi. La sua autorevolezza era poi anche una questione di fisicità. Alto un metro e 85, quando lo vedevamo arrivare ci sembrava un gigante. Tutto doveva essere in ordine, noi ben vestite e pettinate, la tavola apparecchiata come voleva lui. È sempre stata una sua fissa. Una questione di cura in generale, anche per il cibo».
Era il ritratto che emergeva dal classico tema di scuola, «parla del tuo papà?».
«Ne ricordo uno, in particolare, di questi temi, quando, in estate, dopo che lo avevamo battuto a carte ci aveva spedito tutti a fare i compiti per punizione. Ma per lui abbiamo sempre nutrito un’ammirazione sconfinata».
Anche per la sua eleganza?
«Ci ha sempre tenuto a vestirsi bene, ma come segno di rispetto per sé stesso e gli altri. Lui non ha “molte” cravatte: ne ha un intero armadio. Mia mamma ci faceva stirare il suo guardaroba: “Così capirete, ci diceva, come dovete prendervi cura di voi stesse”. Comunque in casa non si mettevano né tute né jeans».
Dal vostro album mancano le foto di vacanze insieme, dal momento che «babbo Vittorio» dichiara di non esserci mai andato.
«È vero. Lui ci portava, nel senso che ci trasferivamo in Toscana con due macchine. Con lui al volante non si saliva troppo volentieri, perché fumava tenendo il finestrino chiuso, altrimenti si sarebbe spettinato. Però, durante il viaggio, potevamo chiedergli qualsiasi cosa, aveva sempre la risposta pronta».
Più complimenti o più sgridate?
«Entrambi, ma sempre con misura. Le critiche sono state sempre costruttive. Si sbaglia, ma poi si migliora».
Mai avuto un moto di ribellione nei suoi confronti?
«Poco più che diciottenne rimasi incinta. Lui mi propose di restare in casa che avrebbe provveduto a tutto, ma io ero innamorata del papà di mia figlia. Così me ne andai. Credo di avergli dato un dispiacere iniziale, ma poi gli ho mostrato una grande forza e coraggio».
Lui ha etichettato la festa degli innamorati come una «puttanata». La pensa così anche di quella del papà?
«Secondo lui sono feste che non hanno motivo di esistere. Ma è capace di farti regali in un giorno qualsiasi dell’anno. Solo per dirci, a modo suo, “ti voglio bene”. A tutti noi figli ha regalato un appartamento e nel mio ho impiantato l’agenzia immobiliare. L’ho chiamata “Casa Feltri” come omaggio nei suoi confronti».
E lei, invece, che cosa gli ha regalato?
«Una fotografia che lo ritrae alla macchina da scrivere, con la dedica “sei il mio eroe”. Ha combattuto tanto, sia a livello personale che professionale. È quello che penso davvero. Un regalo che gli ho fatto quando avevo già 40 anni, grazie ad una consapevolezza che ho maturato con il tempo».
Oggi che rapporto avete?
«Lui vive a Milano con mia mamma. Ci mandiamo messaggi, chiamo lei e con il viva voce ci salutiamo. Poi il sabato sera si va a trovarlo».
In più occasioni si è lasciato scappare che «i figli stanno bene a casa loro».
«Lo dice per darsi un tono, ma è un discorso più ampio. Intende dire che i figli devono farsi la loro vita e non pesare sui genitori. Quando dice che non ci lascerà niente, abbiamo pronta la risposta: “Ci hai già dato tutto”».
Le è mai capitato di vederlo commosso?
«Sì, quando non è stato bene. L’ho abbracciato e gli ho raccomandato: “Devi stare bene, babbo, perché altrimenti sto male anche io”. E ogni tanto arriva a chiamarci “amore”. L’ultima volta? Sabato scorso, quando gli ho portato un pacchetto di sigarette».