Corriere della Sera, 19 marzo 2025
Luca Manfredi: «Papà Nino era assente e severo, ma speciale». Il suo ricordo tra conflitti e ammirazione
Luca Manfredi, sceneggiatore e regista, è il «figlio orfano» di Nino Manfredi: «Non era un genitore presente, in compenso continua a parlarmi dai suoi film». Al papà ha dedicato tre lavori tanto lucidi quanto intimi come il libro «Un friccico ner core», il documentario «Uno, nessuno, cento Nino» e il film «In arte Nino» con Elio Germano. «Per me è stato un modo di mettere a posto le cose tra noi, padre e figlio, e di chiudere un cerchio – racconta Luca – ma anche una sorta di atto dovuto verso l’artista Nino Manfredi». Un artista che nel 1972 entrò, con la sua cura di attore maniacale, nei panni del papà più amato delle favole di ogni tempo: il Geppetto di Pinocchio. Diretto da Luigi Comencini, ne interpretò i gesti gentili e l’aspetto arruffato, traghettandolo dalla letteratura al cinema in tutta la tenerezza del personaggio collodiano di papà per caso. Anzi, per magia. «Ma nella realtà Nino era tutt’altro: assente e orgoglioso, severo e poco affettuoso. Eppure speciale», parola di Luca Manfredi.
Davvero è stato un padre così distante?
«Ha amato più il lavoro che i figli. O, per lo meno, ha passato più tempo sul set che in famiglia. Attenzione, lo dico senza rancore. Il suo era un talento tormentato, segnato da un grande trauma: a 15 anni fu colpito da tubercolosi e ricoverato al Forlanini, dove restò 3 anni vedendo morire tutti i suoi compagni malati. Gli diedero l’estrema unzione per ben due volte, invece fu l’unico del reparto a salvarsi da quel male. Da allora si sentì per sempre un miracolato, lui che era ateo. Molto di questa esperienza mio padre la riversò nel suo film del 1971 Per grazia ricevuta, il più sentito e autobiografico della sua carriera. Una carriera in cui ha inseguito anche una sorta di riscatto dall’aver vissuto a lungo con lo spettro della morte. Nino voleva mordere la vita. Farne qualcosa di grande. Aveva un dono e lo ha seguito».
Il lavoro, però, a un certo punto vi ha unito.
«Da piccolo chiedevo a mia madre di portarmi a trovarlo sul set, pur di stargli vicino. Rimanevo affascinato, Lui, almeno a parole, non mi incoraggiò mai a lavorare nel cinema, ma appena iniziai la carriera di copywriter mi volle al suo fiano come autore e regista della celebre saga pubblicitaria di caffè Lavazza. Non era contento degli spot immaginati dalla società torinese, così mi disse: “Tu mi conosci, conosci la mia ironia, perché non ti occupi tu di questa pubblicità”. Mi misi a lavoro... il resto è storia. Siamo andati avanti per ben 15 anni. E in quegli anni nacque l’amicizia con Ottavio e Rosita Missoni, che tutti credevano fossero sponsor degli spot. Invece era mamma Ermina che si occupava dei costumi e faceva indossare i maglioni Missoni a papà. Finché un giorno lo stilista volle conoscerlo, diventarono subito amici e finì che ogni anno arrivavano a casa decine di capi della maison».
Con suo padre lavorò anche a serie tv e film per il cinema. Alla fine siete diventati complici?
«Macché, appena poteva mi rimproverava. Una volta mi fece riscrivere sotto dettatura una scena che non gli piaceva. Quando la provammo sul set non funzionava. Ma invece di ammettere l’errore urlò davanti a tutti: “Chi ha scritto sta schifezza!”. Gli saltai al collo, dovettero dividerci. Quando mi calmai gli lasciai in camera una lettera in cui sfogai la mia frustrazione per questo rapporto padre-figlio mancato, mai diretto, mai confortante. Lui fece finta di non averla mai letta. E andammo avanti così. Non era capace di chiedere scusa e non amava i confronti».
Quale allora il ricordo più dolce?
«Ci siamo avvicinati quando era ormai anziano e ovviamente più libero dagli impegni lavorativi. Con i miei figli, addirittura, fu un nonno affettuoso. Quasi li invidio, ebbero un attenzione e un tempo Ma gli mancava il lavoro, così veniva sui set e mi chiedeva: “Non è che c’è una particina per me?”, come fosse un attore alle prime armi. Invece era il grande Nino Manfredi, che ha amato il suo mestiere fino alla fine. Provavo tanta tenerezza, ma anche grande ammirazione per quell’artista che aveva sempre lavorato solo per pura passione. Mai per soldi. Non sapeva neanche quanti soldi aveva nel suo conto in banca. Ricordo che una volta andò da mamma perché aveva visto un appartamento che voleva acquistare come studio e le chiese: “Erminia lo possiamo comprare? Ce lo possiamo permettere?”. Non amava gli sprechi, eppure non sapeva neanche quanto guadagnava».
Cosa ha ereditato da lui?
«La serietà e il rigore professionale. E poi l’uso dell’ironia come potente strumento critico. La sua massima preferita era castigat ridendo mores, castiga i vizi con una risata. Che in fondo è un po’ il tratto distintivo di tutta la migliore commedia all’italiana. Mio padre poi aveva un idolo, era Charlie Chaplin. Per lui fu d’ispirazione, certo, ma credo che avessero ben più di qualcosa di naturalmente in comune, a partire dalla capacità di accendere contemporaneamente l’allegria e un senso di profonda malinconia. La risata amara».
Cosa gli direbbe oggi?
«Lui non amava le feste, soprattutto non voleva sentir parlare di San Valentino, Festa della Mamma, Festa del Papà... erano riti completamente al di fuori dei suoi interessi. Eppure oggi una domanda gliela farei: ma perché non ci siamo mai davvero parlati? Lui, già lo so, risponderebbe con un alibi o una battuta. Intanto io mi godo la consapevolezza di aver avuto un padre speciale. E il lusso di sentirlo vicino tutti i giorni, nei suoi film. Non sarà stato un genitore presente, ma il suo lavoro lo ha reso immortale».